Purtroppo Francesco Bonami mi ha preceduto, non solo a livello lavorativo ma anche editoriale: il suo penultimo libro si intitola come questa rubrica. Nel senso, questa rubrica ha lo stesso titolo di una recente fatica letteraria del suddetto. Pazienza, me ne farò una ragione.
Questa volta ho espatriato e sono andato a trovare Mario Casanova, direttore (con Pier Giorgio De Pinto) del MACT/CACT Arte Contemporanea Ticino nella verde e raffinatissima Svizzera. Trait d’union di musei, gallerie private e riviste specializzate, il MACT/CACT presenta mostre d’arte contemporanea internazionale e di importanti collezioni private, con un occhio di riguardo alle giovani generazioni.

MERET OPPENHEIM (1913-1985), Wolken (II), 1971, Carta con marchi a filigrana, Collezione privata, Svizzera
Allora Mario, quando hai iniziato a occuparti d’arte?
Emanuele, grazie per la tua domanda. Si decide coscientemente di iniziare a occuparsi di arte? Da quando la ragione ha iniziato a prendere forma e corpo, ricordo di avere sempre amato l’espressione artistica e guardato alle cose della vita e dell’esistenza, usando una lente particolare, adottando un linguaggio ch’era quello del viaggio interiorizzato.
Mi pare che occuparsi di linguaggi sia come fecondare in maniera del tutto speciale il pensiero per farlo diventare arte. E quello vero – di pensiero – apre qualsiasi porta, accede a tutto, non ha morale, né forma particolare: siamo finalmente liberi.
È forse questo possibilismo che mi ha naturalmente indotto ad avvicinarmi dapprima inconsapevolmente all’arte come giardino delle libertà; è grandiosa la capacità degli artisti di scoprire o sentire mondi invisibili ma possibili all’interno del rapporto dicotomico realtà/verità.
Che tipo di approccio è il tuo al lavoro di un artista? Cosa valuti per capire se ti trovi davanti a un artista degno?
Premetto che i curatori, termine peraltro molto recente, non devono determinare il lavoro di un artista, non devono sostituirsi a esso; né dovrebbero – nella loro pratica – occuparsi degli aspetti mercantili, bensì dell’importanza che un processo creativo provoca nel momento storico. Ogni curatore, secondo me, opera scelte sulla base di un giudizio molto interiore, personale e talvolta personalizzato. La selezione di un artista o un’artista è soggetta a molti parametri.
Si sceglie un autore, affinché il suo lavoro si inserisca al meglio in un contesto tematico. È assolutamente determinante selezionare le opere e il criterio di selezione è quasi sempre un equilibrio tra concetto ed emozione, come dire tra spirito e corpo, fino a lambire quei lati utopici e oscuri che anche un curatore ha dentro di sé. Nel mio caso l’impulso istintivo corrisponde sicuramente a una prima fondamentale fase energetica nell’approccio a un lavoro artistico, poi subentra l’aspetto cerebrale, quello didattico, il confronto con la Storia; anche una certa percezione sensuale dell’opera.
Spesso – nel caso di artisti giovani – considero anche l’eventualità che un autore possa irrobustirsi ulteriormente attraverso la messa in mostra e la messa a confronto delle sue opere con il suo pubblico. È necessario che un artista esca dal suo stato onanistico per confrontarsi. Esporre le proprie opere corrisponde quasi sempre a una mise en scène di ciò che un artista vuole esprimere attraverso il suo lavoro, una sorta di catarsi salutare. E mettersi a nudo, dire ed esprimere liberamente ciò che pensi e senti, manifestarsi, non sempre è cosa facile; sia per gli artisti che per i curatori.
In generale secondo te quanto “pesa” il giudizio di un critico sul lavoro di un artista?
In passato il giudizio critico di un esperto d’arte era fondamentale per la crescita di un artista all’interno di un decorso storico e storiografico. Oggi, in un’epoca laddove il mercato e l’approccio a carattere non più tanto economico, quanto finanziario, all’arte è assolutamente recrudescente, anche il curatore ha perso il suo fascino, vieppiù sottoposto a pressioni di tipo – appunto – mercantile. Le strategie in questo ambito hanno sostituito l’amore per l’incontro, sempre meno curatori si spostano per visionare gli studi degli artisti, per toccare con mano i materiali o semplicemente per fare propri i lati più privati del processo creativo di un artista quando è chiuso nel suo studio.
Gli artisti ambiscono prevalentemente a raggiungere l’obbiettivo del'”avere” o dell'”apparire” invece che dell'”essere”, della crescita personale parallela alla maturazione del proprio lavoro. Di conseguenza anche le collezioni d’arte sono sempre meno interessanti e più didattiche. È rarissimo incontrare collezionisti che acquistano opere per piacere o con il cuore.
I musei, che dovrebbero ribadire il loro statuto di guida in ambito artistico-culturale nel verso della crescita di una data psico-geografia, sono sottoposti alle pressioni del mercato, creando così imbarazzanti epigoni estetici e forme preoccupanti di merchandising istituzionale
Qual è il tuo rapporto (se hai un rapporto) con le gallerie d’arte?
Io ho evidentemente un rapporto con le gallerie, proprio per quanto attiene ai prestiti di opere per esposizioni o semplicemente per la loro acquisizione. Essendo la mia identità professionale maggiormente legata alla figura del curatore, i miei rapporti si instaurano soprattutto direttamente con collezioni e/o con artisti. Allorquando gli autori sono già ben inseriti nel mercato ci rivolgiamo in seguito alle loro gallerie per eventuali prestiti. È un mondo diverso dal nostro. Le gallerie si occupano di arte con un’evidente e giustificata predilezione per il mercato.

MARTIN DISLER (1949-1996), Gerinnendes Selbst, 1986, Pastello, tempera, grafite; tecnica mista su carta, Collezione privata, Svizzera
Sei anche una “consigliori” per collezionisti? Secondo te il collezionista è più utile o meno utile, rispetto alla galleria, per la crescita di un artista?
No, io non sono un consigliere per collezionisti, un art advisor, come si dice oggigiorno. Molto spesso il collezionista acquista ciò che tira nel mercato, ciò che fa cassa e crea indotto economico o investimento e l’art advisor lavora spesso puntando a questi obiettivi. Mi capita talvolta d consigliare alcune collezioni che hanno un budget da spendere per acquisti d’arte, senza lo scopo esclusivo di acquisire dovendo seguire logiche di mercato.
Tre-nomi-tre di artist* degn* secondo Mario Casanova
Ci sono tantissimi artisti bravi, ed è davvero sempre difficile citarne solo tre, senza entrare nell’ambito del contest e della competizione, quale espressione ultima di un’epoca post-contemporanea, capace di dare alla casistica e all’assolutismo un’importanza che non meritano. Gli artisti, che hanno lasciato un segno nella mia crescita professionale, sono tanti. Ne cito tre già scomparsi, che sono Katia Bassanini (1969-2010), Martin Disler (1949-1996), Meret Oppenheim (1913-1985). Come detto mancano tutti gli altri, che hanno pure contribuito alla costruzione di quella piramide che si chiama mondo dell’arte e i quali sono riusciti a rendermi più consapevole. L’universo della competitività nel mondo dell’arte assume un’identità particolare, quasi perversa e fortemente legata ancora una volta al mercato.
Nella vita mi è capitato molto spesso di acquistare opere di artisti per poche centinaia di franchi, per poi vedere questi stessi autori in cima alle classifiche, allorquando le loro opere assumevano quotazioni rilevanti. È questo paradosso, che mi ha sempre allontanato dal mercato, e per tale motivo ho deciso che avrei esclusivamente operato nell’ambito della curatela di esposizioni d’arte, qualora gli artisti ne avessero avuto bisogno.
Discorso economico a parte, ma l’arte, secondo te, è cosa nostra? E’ proprio proprio per tutti?
Abbiamo attraversato un periodo storico, in cui il processo di democratizzazione e di massificazione mirava all’egualitarismo e al livellamento; quasi sempre – giocoforza – verso il basso; questo tra la caduta delle ideologie politiche e quella delle avanguardie. Il secondo boom economico degli anni 1980 ha fatto il resto, esasperando la proliferazione di musei, di accademie e conseguentemente di artisti.
Quando la politica si accorge che la museologia e le strategie museografiche sarebbero potute diventare un bacino di scambio tra stato civile e stato politico, dove era tra l’altro di moda il termine “melting pot”, “coscienza collettiva” e tutte queste cose, ecco che il presupposto di museo nel verso di un luogo costruito sulla dialettica culturale è definitivamente precipitata, venendo meno. Il fenomeno blockbuster, marchandising è entrato a far parte del vocabolario adottato dal mondo delle arti, per cui l’approccio curatoriale si è definitivamente adattato ai criteri tipici di un supermercato, del vendere un prodotto, dello staccare più biglietti e, anche, della didattica.
Ogni cosa si rapporta al concetto di “fetta di mercato”, ogni iniziativa deve rendere, ogni mostra sembra uguale a tutte le altre, da nord a sud, adottando criteri estetici che ricordano l’assuefazione e l’inibizione della criticità. La virtualizzazione attraverso i social network è ancora un’altra metastasi della stessa medaglia.
Ecco, è proprio in questo contesto che si colloca il tuo quesito. Tendenzialmente e teoricamente si potrebbe migliorare il livello culturale per tutti: dal punto di vista fattivo, invece l’arte non è per tutti…ma nemmeno l’ingegneria, o la filosofia e la medicina. L’arte non è funzionale all’interno di questo contesto, e nell’epoca del profitto, anche il museo deve fondamentalmente abbassare le ali, adottando formule polimediali, dove si confondono in maniera talvolta ipnotica arte pura, arte applicata e arte di regime. Credo, tuttavia, negli artisti, quelli che considero “degni”, per usare una tua accezione, e nella loro capacità visionaria e ideale di dire anche di no, di ribaltare una situazione che dovrebbe essere costantemente e per definizione in movimento.
Chiediti cosa ne sarebbe di un artista, oggi, che intendesse operare al di fuori dell’istituzione. Perché chi sta dentro è più fortunato, più pagato di coloro che stanno fuori? Eppure, se l’arte è buona…
La politica culturale e i pingui contributi economici stanno vieppiù creando una sorta di arte statale, laddove le istituzioni che un tempo si limitavano a finanziare la produzione di opere d’arte, oggi si sostituiscono senza troppo pudore e in maniera silenziosa e strisciante ai curatori e ai promotori culturali
Sì, la politica è diventata inesorabilmente promotrice di arte e cultura. Ma un tempo non erano gli esperti del ramo che se ne occupavano? Chi sono oggi i veri esperti?
Qual è secondo te lo stato attuale dell’arte, almeno nella provincia italiana? Chi domina il campo? Quali sono gli scenari futuri?
L’istituzione pubblica si è sostituita goffamente alle grandi aristocrazie (o semplicemente ai grandi che ci hanno preceduti), i quali hanno de facto costituito il grande patrimonio culturale che possediamo ora. Mi è difficile parlare dell’Italia, mancandomi i dettagli, e forse sarebbe anche ingiusto operando io prevalentemente in Svizzera. Una cosa è sicura, parlando di un cantone svizzero di cultura italiana: che i tempi d’oro dell’arte di tipo museale in Ticino risalgono sicuramente al periodo della presenza del Barone von Thyssen a Lugano. Poi di Harald Szeemann e tanti altri prima e dopo di loro, i cui patrimoni sono stati dispersi nel mondo, gravando come ombre sul nuovo che sta arrivando. Lo scenario futuro potrebbe essere quello di una maggiore presa di coscienza dell’artista futuribile come contrafforza rispetto all’istituzione museale ed accademica. Questa necessaria dicotomia tra realtà e verità potrebbe ridare linfa alla creatività. Quanti meravigliosi assenti ingiustificati vediamo oggi nelle miriadi di Biennali sparse nel mondo? Io credo che, all’interno della nemesi storica attuale, negli ultimi anni si sia premiato molto la banalità o chi è bravo manager di se stesso. Non è certo l’evento che crea i contenuti, quanto piuttosto il contrario. Sì, una chiave di svolta potrebbe essere proprio l’artista stesso e la sua capacità di autodeterminazione.
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