Immagine di copertina: Christian Fogarolli, Lost identities, dOCUMENTA (13), Karlsaue Park, Kassel
Purtroppo Francesco Bonami mi ha preceduto, non solo a livello lavorativo ma anche editoriale: il suo penultimo libro si intitola come questa rubrica. Nel senso, questa rubrica ha lo stesso titolo di una recente fatica letteraria del suddetto. Pazienza, me ne farò una ragione.
Questa volta a far l’esame è Carlo Sala, innanzitutto un eccellentissimo studioso e, of course, curatore in spazi pubblici e gallerie private e critico d’arte. Ha messo le mani (insieme a Nico Stringa) sul Padiglione Venezia alla 12.Mostra internazionale di Architettura e collabora con la Fondazione Francesco Fabbri come curatore del Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee e il festival F4 / un’idea di Fotografia. Suoi saggi e testi critici sono apparsi in varie pubblicazioni edite da Allemandi, Marsilio, Mimesis, Bruno Mondandori e Skira.
Allora Carlo, quando hai iniziato a occuparti d’arte?
Già durante le scuole superiori scrivevo per alcune riviste d’arte e poco dopo la maggiore età avevo terminato il praticantato da pubblicista. Mi piaceva frequentare gli studi d’artista, giravo in modo compulsivo alle mostre, per cui occuparmi d’arte è stato quasi naturale. Ero un “compagno di viaggio” per i giovani autori della mia generazione; negli anni abbiamo condiviso speranze, delusioni e la volontà – forse ingenua – di rinnovare una parte dell’ambiente culturale che insieme frequentavamo.
Che tipo di approccio è il tuo al lavoro di un artista? Cosa valuti per capire se ti trovi davanti a un artista degno?
Siamo attori di uno scenario dove vige una ibridazione dei linguaggi, una atomizzazione delle concezioni teoriche e formali che reggono l’arte contemporanea. Per questo è fondamentale il ruolo del curatore – se realizzato con onestà intellettuale e indipendenza – non tanto nella dogmatizzazione dei fenomeni (da cui, secondo i modelli critici del Novecento, è impossibile desumere un paradigma), ma nella loro comprensione. Bisogna essere delle sentinelle capaci di percepire le mutazioni in corso, partendo proprio dal dato empirico, ossia dalla produzione degli autori che appaiono più significativi. Certamente una valutazione formale è necessaria, ma ciò che distingue un artista dagli altri è la capacità di realizzare un lavoro aderente al proprio tempo per sviscerare determinate problematiche o istanze che narrano i cambiamenti in atto in senso progressivo o a passo di gambero.
In generale secondo te quanto “pesa” il giudizio di un critico sul lavoro di un artista?
Certamente è molto importante, ma assume un significato differente rispetto ad alcuni decenni fa. Ricordo che il grande pittore americano Cy Twombly, dopo una serie di critiche negative sulla sua mostra da Leo Castelli a New York nel 1964, rallentò notevolmente nei due anni successivi la sua produzione e meditò a lungo sull’attualità o meno della sua arte.
Oggi, specie nel nostro paese (e lo dico con una certa amarezza), non esiste più una militanza critica e intellettuale così evidente perché l’influenza del critico o del curatore si esprime principalmente attraverso la sua funzione connettiva con gli altri attori del mondo dell’arte, segnalando o invitando o meno l’autore alla mostre internazionali, ai musei e alle fiere
Qual è il tuo rapporto (se hai un rapporto) con le gallerie d’arte?
Le galleria è il primo stakeholder di un artista e di conseguenza è impossibile non dialogare con simili realtà. Oltre alle mostre che curo in alcune gallerie è fondamentale il credere entrambi nel valore di un artista e ragionare su come farlo esprimerlo al meglio nelle mostre pubbliche. Questo è avvenuto recentemente nel festival F4 / un’idea di Fotografia, composto da molti interventi site specific. Le gallerie con una portata nazionale o internazionale, accanto alla loro attività mercantile, devono delineare delle strategie culturali precise che contemplino almeno il medio termine.
Sei anche una “consigliori” per collezionisti? Secondo te il collezionista è più utile o meno utile, rispetto alla galleria, per la crescita di un artista?
Collaboro con molti collezionisti non limitandomi a fornire dei semplici “consigli per l’acquisto”, ma instaurando con loro varie forme di dialogo. I collezionisti odierni più evoluti si interessano dei fenomeni culturali da veri globe trotter dell’arte tra Basilea, Londra e New York ed al tempo stesso ambiscono ad essere art makers per influire nei processi interni al sistema dell’arte. E’ superfluo dire chi abbia il ruolo di maggior rilievo tra il gallerista ed il collezionista: sono gli ingranaggi di un medesimo orologio di precisione che, per dettare i tempi di una carriera, necessita di ogni componente. Detto questo, è innegabile come il ruolo dei collezionisti dagli anni Novanta in poi abbia assunto una dimensione più ampia, segnata da un forte attivismo.
Fino ad arrivare ai casi-limite, in cui, a differenza dei mecenati del passato che si limitavano a sostenere l’arte, avviene una vera e propria sostituzione ai curatori e ai direttori di musei nell’indicare e imporre alcune tendenze
Tre-nomi-tre di artist* degn* secondo Carlo Sala
Di istinto citerei Monica Bonvicini, Andrea Galvani, Giuseppe Gabellone o Arcangelo Sassolino. Ma per coerenza con il mio modo di intendere la funzione del curatore voglio porre lo sguardo in avanti e giocarmi una terna di autori emergenti meno storicizzati: Matteo Fato, Christian Fogarolli e il collettivo The Cool Couple. Fato utilizza una pluralità di mezzi espressivi fondendo una sapienza quasi antica del fare arte alle istanze delle contemporaneità, giungendo ad una visione complessa della pittura scandita da attese e riflessioni. Christian Fogarolli ha rigenerato la pratica dell’uso delle immagini d’archivio mettendola in dialogo con l’installazione per realizzare dei lavori in cui indaga in modo profondo la natura umana attraverso lavori in bilico tra positivismo scientifico, soggettivismo e percezione. The Cool Couple bene interpreta il desiderio di una generazione di giovani autori di rinnovare le ricerche sull’immagine; eloquente di questo è il loro progetto Approximation to the West, una sorta di filologa immaginaria dove viene ripreso un evento storico come pretesto per trattare alcune urgenze del presente.
Una domanda sui massimi sistemi: ma l’arte, secondo te, è cosa nostra? Nel senso, è proprio proprio di tutti e per tutti (discorso economico a parte)?
E’ un tema spinoso. E’ innegabile la funzione educativa e di creazione di valori condivisi attorno al potere che l’arte ha rivestito per molti secoli. Detto questo, non è mai stata popolare nell’accezione contemporanea del termine perché, mitologie a parte, era rivolta ad una fascia ridotta della popolazione.
Il nostro paese nel campo delle arti visive non ha saputo governare la nascita di un’industria culturale
Conseguentemente rispondo dicendoti che l’arte è per tutti, ma secondo delle formule deviate di ricezione: mostre di massa “blockbuster” che deficitano sul piano scientifico e relegano il visitatore a consumatore passivo. Viceversa credo fortemente nel cosiddetto welfare culturale, inteso come valore proprio dell’arte, come attivatore di un pensiero critico che, in ultima istanza, ci rende dei cittadini più consapevoli.
Qual è secondo te lo stato attuale dell’arte, almeno nella provincia italiana? Chi domina il campo? Quali sono gli scenari futuri?
L’Italia non ha saputo adattare le sue istituzioni museali, gli enti di formazioni e la disciplina di mercato ad un sistema dell’arte che negli ultimi decenni ha accentuato il divario esistente tra le poche “piazze” internazionali che contano e il resto del mondo. Il ruolo marginale che rivestiamo è esemplificato da un dato diffuso qualche settimana fa: il mercato delle aste negli Stati Uniti è in crescita a 3,4 miliardi di dollari e quello italiano si assesta su un imbarazzante 39,7 milioni. Ovviamente il mercato non è tutto, ma è pur sempre un ottimo indicatore.
Nonostante questa grande debolezza sistemica, la fortuna che hanno trovato all’estero molti curatori e autori italiani è il segnale incontrovertibile che le progettualità e il talento non mancano
Ripongo molta fiducia nell’attuale generazione italiana di autori emergenti perché fin da subito si è mossa in un dibattito e sistema globale. Spero che contribuiscano a farci uscire da questa sorta di sonnambulismo culturale e omologazione di pensiero per far sì che l’arte sia nuovamente specchio delle tensioni e problematiche sociali di questo paese. Non bisogna avere timore dei conflitti: un dibattito critico, estetico e filosofico – anche aspro – sarebbe davvero salutare.
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