Kritika onpaper # 0 – Milano – 22 | 05 | 2009
Rendere esplicito l’invisibile facendolo esplodere: la Fisica di Arcangelo Sassolino.
C’è un ospite spaventoso nel cuore del sublime. Lo riconosceva Edmund Burke a metà del XVIII secolo, individuandolo in «ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore». Arcangelo Sassolino (Vicenza, 1967 – vive e lavora a Vicenza) ne costituisce la cifra del suo operare, dando vita a un’estetica del pericolo, gravida di ansia e tensione. Le sue sculture parlano un linguaggio minimale, fatto di materia inerte, pistoni e ingranaggi, countdown impredittibili, che illustrano forze ed energie immanenti al mondo fisico. Lontane dall’arte meccanica delle avanguardie, dalle esaltazioni del futurismo e dall’ironia dada e surreale, le sue opere parlano di realtà consistenti, senza pretendere di rifondare un immaginario formale. Eppure vi si può riconoscere una certa unità di intenti con quanto Balla e Depero scrivevano nel loro manifesto Ricostruzione futurista dell’universo: «daremo scheletro e carne all’invisibile». Sassolino esegue la lettera di quella dichiarazione, dando luogo a sculture che evidenziano la presenza e l’azione di un invisibile fisico. Pressione, gravità, attrito vengono veicolati attraverso sculture dai lenti movimenti o dagli equilibri instabili, che si caricano di tensione emotiva, dando all’energia potenziale che accumulano una dimensione ansiogena in grado di renderne la presenza palpabile.
Nei suoi primi lavori, Sassolino si rifà ai maestri italiani del secondo dopoguerra. Di Alberto Burri recupera la poetica della materia in opere che esaltano le proprietà di cemento, calcestruzzo, acciaio, materiali inerti e incolori, poco romantici e per questo più adatti a esprimere il nostro tempo e il contesto in cui l’artista opera, tra i capannoni dell’eterna provincia vicentina. Fin dagli inizi è chiara la sua posizione iconoclasta, tesa a «inasprire lo sguardo dello spettatore». Il primo Sassolino interpreta le proprie opere come «crocifissi laici», suggerendo un parallelo con il tentativo di Bataille di immergere nel mondano la passione di Cristo. Al posto della fotografia del supplizio dei cento pezzi che ossessionò il pensatore francese, stanno dei semplici blocchi di calcestruzzo appesi alle pareti, che già additano un invisibile privo di trascendenza, come faranno in seguito più esplicitamente le sue macchine di forze in tensione.
Il linguaggio delle opere di Sassolino soggioga lo spettatore parlando una grammatica monumentale. Tanto da aggiunge alle tre dimensioni una quarta componente fondamentale per descriverne le caratteristiche, il peso. Probabilmente, proprio la difficoltà di gestire la mole delle sue opere ha suggerito all’artista una nuova direzione del suo lavoro. Con Rimozione, 2004, sollevando venti metri quadri del pavimento della galleria veronese Arte e ricambi, il cemento acquista una prima tensione dinamica ed equilibrio e tensione diventano esplicitamente elementi inerenti all’opera. In Attrito continuo, 2006, un blocco di cemento viene fatto ruotare su se stesso frantumando il pavimento su cui poggia. L’opera interagisce direttamente con lo spazio che la ospita, lo modifica, lo intacca, graffiandone la superficie o asportandone una parte. Ne trasforma le aspettative, rendendolo più inquieto, lasciando allo spettatore la possibilità di alimentarlo con la propria immaginazione, suggestionata dalla presenta ingombrante dell’opera. Ma è soprattutto con Momento, 2006, che inizia una nuova fase. Al centro non è più soprattutto lo spazio e l’interazione invasiva del contenuto sul contenitore, ma si riflettono le interazioni presenti all’interno dello stesso contenuto, dell’opera in mostra. Presso la Galleria Galica, una lastra di calcestruzzo è inclinata, sorretta soltanto da una lastra d’acciaio, calcolata per essere il più sottile possibile. Il risultato è un equilibrio inquietante, che mette a confronto lo spettatore con uno stato di cose che non manifesta altro che se stesso e la sua potenziale rovinosa deriva. All’energia potenziale si aggiunge anche la pressione, con Untitled, 2005 e le sue versioni successive Untitled, 2007, e Afasia 2. L’energia di una carica di pressione di circa 250 bar viene immessa all’interno di una struttura d’acciaio, realizzando una riserva di energia, che racchiude un potenziale letteralmente esplosivo.
Con Afasia I, presentato nel 2008 alla mostra Superdome nel Palais de Tokyo di Parigi, Sassolino compie un passo ulteriore, non limitandosi a offrire un tensione potenziale, ma lasciandola deliberatamente esplodere. All’interno di una gabbia di acciaio e plexiglas, una grande pistola collegata a sedici bombole di nitrogeno scaglia bottiglie vuote di birra a 600 km/h contro una lastra metallica, polverizzandole. I lunghi intervalli tra uno sparo e l’altro lasciano gli spettatori nell’attesa di un evento che incombe, ma sembra non arrivare mai. Poi, la deflagrazione. Improvvisa, a cogliere gli spettatori comunque impreparati, facendoli letteralmente sobbalzare, anche quando ormai non sono più concentrati sull’opera.
Il tempo è una componente essenziale dei risultati che queste macchine mettono in atto. Un tempo rallentato e per questo in grado di enfatizzare il contraccolpo ansiogeno sullo spettatore, come un thriller. Ed è inoltre in grado di illustrare in maniera più evidente il modo in cui le forze agiscono e si contrappongono. Ad esempio, in Untitled, 2007-2008, un grosso asse di legno è fissato con corde d’acciaio alle due estremità ad un pistone idraulico che preme al suo centro, lento ma inesorabile, fino a sventrarlo completamente, enfatizzando la resistenza del materiale e il suo essere soggiogata dalla forza meccanica, amplificando emotivamente il suono dell’aprirsi delle crepe nel legno. Scoppi improvvisi, come quello della pistola di Afasia I, o come il crollo di un parallelepipedo di decine di tonnellate di acciaio sollevato per pochi centimetri sul pavimento da un elettromagnete in Untitled, 2006. Sono sculture che assumono caratteristiche di performance, proprio perché sono originate da una radicale ossessione per il reale. Non vogliono rappresentare nient’altro che se stesse, esplicitano uno stato di cose già presente, lo suggeriscono e lo lasciano accadere, additano un potenziale fisico che esiste comunque in natura, lo rendono esplicito facendolo esplodere. Dimostrano un invisibile di pura energia, lontano dagli assoluti che ha incarnato l’arte del passato, ma ugualmente separato da quello di chi ne fa mera teoria. Così facendo, danno conto del nostro tempo, inquieto e timoroso, che rimuove piuttosto che guardare in faccia la vanitas che lo costituisce, e con una deflagrazione lo risvegliano, riuscendo – sia pur brevemente – a illuminare quelle tenebre che, da secoli, preferiamo alla luce.
Stefano Mazzoni vive e lavora a Cracovia. Si forma in Estetica e Conservazione. Tra il 2006 e il 2010 ha curato ordinamento e inventario dell’Archivio Giovanni Sacchi. Dal 2009 cura con Emanuele Beluffi la pubblicazione Kritika. Ha collaborato con le riviste Artribune, Exibart, Mousse, Teknemedia. Ha fatto parte della giuria che ha attribuito il premio della critica di WRO 2011, la biennale di media art di Breslavia.
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