CLAUDIO MAGRASSI | KRITIKA

0 Posted by - September 15, 2009 - Approfondimenti

Kritika onpaper # 1 – Milano – 15 | 09 | 2009

 

MAPPATURE DEL DERMA

Claudio Magrassi e la metamorfosi alchemica dell’agglomerato pittorico. Ovvero, il bello del brutto

Prelevando a man bassa dal gergo del mistico Heidegger, vien da dire che l’opera di Claudio Magrassi (Tortona, 1969; vive e lavora a Tortona) è una pittura esistentiva piuttosto che esistenziale. Non è analitica quanto la melodia rocciosa d’una riflessione condotta sul limite trascendentale della vita in genere, ma al contrario risulta drammaticamente connotata dalle determinazioni di un’esistenza concreta individuata e singola. Se poi vogliamo compiere il salto salvifico e discendere (o ascendere? cosa è in basso e cosa è in alto?) dal cielo dei filosofanti alla terra dei pittori, allora, come nell’aritmetica che c’insegnavano alle elementari, il risultato non cambia (serve ancora dire che la pittura è filosofia?). Se l’”atmosfera” in senso morale che promana dai quadri del Magrassi può sembrare idealmente accostabile per reminiscenza alla temperie di quel fuoco fatuo che in pittura fu il Realismo Esistenziale, cionondimeno essa se ne distacca in maniera preclara, vuoi per quella che potremmo chiamare l’”atmosfericità” generale della sensibilità di quel climax effimero e profondo, vuoi per l’uso che il Magrassi fa dello stesso mezzo espressivo. Eppure, al fondo permane una stessa Stimmung.

Sulle tele e le tavole del pittore di Tortona l’esistenza è dipinta come esorcizzazione del timore della dimenticanza, mentre la superficie su cui è raffigurata l’immagine si dipana come un derma rispetto al quale il film pittorico assume il sembiante del tatuaggio.

In questo senso una violenta vitalità anima il quadro, come il segno tatuato che sull’epidermide di un corpo indica una volontà d’affermazione – di un concetto, di un sentimento – che con la sua stessa potenza vitale quel corpo, la volontà, testimonia.

Ma dire che il soggetto raffigurato vive nella simulazione di un quadro è la formulazione di un vuoto truismo. Anche il Cristo nella Vocazione di San Matteo del Caravaggio sembra vivo, embeh? Meno banalmente vero è dire invece che, non tanto il soggetto, quanto piuttosto la raffigurazione del soggetto – e dunque per estensione fisica il quadro stesso – vive come una serpe.

Soggetto, raffigurazione, rappresentazione. Ordini di discorso e di pittura collocati su differenti livelli, che certamente passano dal concreto all’astratto della speculazione ma, proprio perché investono di sé il territorio della pittura, non possono sottrarsi al destino di insozzarsi con la lordura dell’esperienza.

In fin del conto, cosa vuol dire “astratto”? Francis Bacon (il pittore, non il filosofo) lasciò dietro di sé la dicotomia figurativo/astratto, avanzando per dir così una proposta su cui la riflessione filosofica avrebbe potuto fare i conti. Non solo nel senso di una deleuziana disciplina intesa alla stregua d’una costruzione di concetti, ma anche nella direzione di un “pensamento” che non disdegni la nonna della filosofia, quella forma di pensiero praticata da filosofi speciali detti alchimisti.

Tuttavia poc’anzi ci si era disposti di abbandonare con un colpo di reni l’iperuranio dei filosofanti. Restassero lì a proclamare sonnacchiosi le discettazioni cresciute nell’etere dei loro cervelli. Mentre noi, come un Toni Negri invertito, anziché assaltare il cielo dei borghesi assaltiamo la terra dei pittori.

Heri dicebamus, il Magrassi… I soggetti dei suoi quadri sono calcografie deviate del conosciuto. La dedizione con cui seleziona i propri modelli è la stessa determinazione con cui l’assassino seriale sceglie le proprie vittime. Il Magrassi filtra infatti sensibilmente quel grado di attinenza che, come un’improvvisa intuizione a-razionale, occasiona la sopravvenienza di un quasi-ricordo, relazione di familiarità indiretta fra un illustre sconosciuto e un soggetto d’esperienza realmente esistito che ha inciso profondamente nell’animo del pittore tracciandone il resoconto biografico. E la pervicacia con cui il Magrassi seleziona i soggetti che condividono quella misteriosa attinenza immaginifica con persone conosciute prende fin da subito la forma dell’ossessione: la “vittima” deve esser fatta in questo modo e non altrimenti. Fra devianza psicopatica e insight pittorico, un unico codice. I quadri del Magrassi, sovente nati dal sogno, vengono sempre preparati a gesso con inserti di vecchie lenzuola strappate, come giacigli predisposti ad accogliere un fantolino, come mappature del derma da cui promani l’odore di un ritratto o di un corpo. Magrassi sporca la base pittorica e successivamente la recupera chiarificandola, producendo una sorta di metamorfosi alchemica dell’agglomerato pittorico. Distruggere per ricostruire. Qui il soggetto prende vita guardando e imponendosi all’osservatore: la stesura del colore è irruenta e istintiva. E qui il rapporto fra soggetto, raffigurazione e rappresentazione si fa chiaro: il soggetto raffigurato assoggetta l’osservatore non rappresentando alcunché. Bensì sviluppando, attraverso quel meccanismo di reminiscenza che abbiamo chiamato quasi-ricordo, una relazione di somiglianza inesorabilmente votata alla soggettività e all’imperscrutabile e inviolabile privacy epistemica del pittore. La cui opera s’incanala in quell’Estetica del Brutto che, lungi dal compiacersi dell’informe, ne esprime piuttosto la bellezza, invertendo il “difetto” sensibile in pregio. Drammatica epitome di una dolorosa passione dell’esistere.

Piace pensare che il “metodo” sia lo stesso adottato dal regista Dario Argento, che, almeno una volta, ora chissà, era uso soffermarsi presso i luoghi della “devianza” abitati dagli individui pencolanti sulla linea di confine fra normalità e inversione da cui traeva materia letteraria per i propri film. La cui trama, prodotta dal sogno e dalla visione, si dipanava spesso nello spazio alieno di una stanza d’albergo. E come Argento lavorò molto con la luce arrivando a realizzare un vero e proprio film “colorato” (Suspiria, dove i colori morbosi e squillanti di edifici, stanze e superfici vetrate trovano il proprio contraltare nel nero della notte senza fine), così il Magrassi alterna il nero siderale al chiarore luminoso (si vedano Criostasi e With praying hands rispettivamente), senza con ciò stesso ostentare un atteggiamento proclive all’uso masturbatorio della luce che favorisca la semplice respirazione del quadro come l’atto di un  quaquaraquà che apre la bocca solo per far passare l’aria fra i denti (i quadri, per farli respirare, basta appenderli alla parete eburnea di una galleria). Il rimando esplicativo di una sintesi selettiva della luce ha il proprio referente in quella sorta di tableaux vivant titolato Shotgun Messiah, dove è peraltro evidente l’influsso di una concezione drammatica e negativa della fede religiosa nel Proprietario Assente della nostra vita.

Il Magrassi ha imparato dunque dagli antichi e dai moderni. I suoi quadri risentono degli scenari totali del Caravaggio e dell’uso selettivo della luce che questi realizzò. Nonchè dell’enfatizzazione della spontanea e naturale irruzione luminosa d’un Vermeer. Non omettendo di tributare quella logica della sensazione che il compianto Gilles Deleuze tematizzò a proposito della pittura di Bacon.

Perché Claudio Magrassi sta tutto qui, nel dipingere senza compromessi e per se stesso, preservando la fascinazione per l’inatteso che esalta il suo esserci, al punto da trovarsi catapultato in strutture dimensionali alternative all’esistenza nel mondo là fuori ma non per questo aliene rispetto al fatto semplice di vivere.

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