ARTICOLO PUBBLICATO SU IL GIORNALE OFF
Se n’è andato così. E ci sembra sempre all’improvviso. Maurizio Fagiolo Dell’Arco lo definì “pittore di fantasmi” e in effetti con la sua pittura sembrava proprio voler cogliere quell’attimo in cui il visibile si dà in tutto il suo splendore, bagnato dalla luce naturale della spontaneità in cui appare.
Numerosissime personali sia in Italia che all’estero, mentre le sue opere si trovano in musei e fondazioni internazionali, oltre che nelle più prestigiose collezioni italiane e internazionali.
Poteva essere Lucien Freud e Anton Lopez Garcia e in effetti li fu entrambi, ma con uno stile assolutamente unico e personalissimo. Visse da protagonista la Nuova Metafisica Italiana. Fu un pittore, un grande pittore, che pensava e agiva come uno che gode di quel che fa, lontanissimo anni luce dall’attitudine dei secchioni annoiati da se stessi. Fu un forte e raffinato frequentatore della letteratura e della filosofia, letture che tocca(va)no solo apparentemente a latere il suo lavoro.
Claudio Bonichi (Novi Ligure, 1943 ; Roma, 2016) ci ha lasciati mercoledì scorso nella splendida casa/studio romana dove ci siamo visti l’ultima volta per preparare la sua mostra milanese da Federico Rui, fra quadri, libri, vino bianco e sigarette, mentre là fuori un sole precocemente caldo illuminava il meriggio a primavera. La sua mostra nel capoluogo lombardo s’intitolava Il teatro dei sogni e in effetti, come disse il poeta, la vida es sueño. Scippando il gergo alla scienza cognitiva, potremmo definire i suoi quadri dei quasi-ricordi, perché Claudio Bonichi non “traguardava” il soggetto, non lo dipingeva e basta, ma lavorava sulla sua memoria, sul suo darsi così e così nella casualità del momento, come un fantasma appunto.
La memoria trasforma le cose, qualsiasi sia la loro natura, in una materia impalpabile che non conosce i confini tra verità e finzione, tra passato e presente, tra vivente e non vivente: una materia davvero simile a quella di cui sono fatti i sogni
Parole sue.
Era misteriosa, la pittura di Bonichi: come ebbe a dire Sergio Beluffi a commento di Melograni a via Margutta,
nel mare magnum dei sogni incredibilmente lucidi di Claudio Bonichi spicca una via Margutta che altro non è se non esempio di hysteron-proteron […]. Una forma di realismo, dopotutto, se non fosse per quei due oggetti color porpora, macchie nel mare grigio a guisa di misteri immobili su pianeti sconosciuti
La sua pittura era intima ma non intimista, devota ma non spirituale: incentrata sull’afflato carnale per l’immagine, come in Dietro la maschera, dove il corporeo del soggetto cela dietro a sé lo splendore del suo apparire, in quel teatro dei sogni che è il fantasmatico mondo là fuori.
Mi seggo nello studio davanti al cavalletto, sul tavolino c’è una piccola mela bacata, accesa di colori: domani sarà sfatta e mi chiede di essere ricordata; la dipingo meglio che posso, credo di aver dipinto una mela, la chiamano natura morta, e invece mi assomiglia, è il mio ritratto. Ma quando dipingo penso a tutte queste cose? No. Quando dipingo un quadro non penso nulla di tutto questo. Ogni quadro è come se fosse il primo: non ci sono certezze, teorie o programmi di sorta. Dipingere diventa una specie di gioco d’amore con il soggetto che esclude la mente […] Ma esistono le sirene? Io credo che sia reale, e quindi realtà, tutto ciò che riesce a muovere la nostra fantasia e quindi riesce a generare nuovi pensieri rendendoci diversi. I pensieri stessi sono realtà. Lo sono i sogni, i ricordi, i racconti
Questo e molto altro era Claudio Bonichi, uno dei maggiori pittori del Novecento e del primo decennio 2.0 , di cui già adesso sentiremo terribilmente la mancanza.
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