CHRISTIAN ZUCCONI. GARBAGE MEMORY

2 Posted by - May 5, 2013 - Interviste

Quale impronta può lasciare la Pietà Rondanini di Michelangelo nella sensibilità di un bambino di soli cinque anni? Quale traccia può imprimere nella mente di chi ignora quanto in quel marmo ancora vibrino le ultime scalpellate di uno dei geni indiscussi del Rinascimento Maturo?

Forse un’orma. L’orma di un cammino. L’orma di un cammino, nel cammino ancora da compiersi, di un bambino stregato dall’incompiutezza di due figure.

Poesia del non finito. Poesia della pietra. E poesia dello scalpello.

L’incontro con la Pietà Rondanini può generare un destino quando un bambino, camminando per le sale di un museo, inaspettatamente incontra la sua strada. Quell’opera diventa un solco nella memoria. Un’orma poderosa in cui egli andrà a porre il suo piccolo piede. Per imparare a camminare.

È stato questo l’incontro che ha consegnato Christian Zucconi al suo destino, spingendolo giovanissimo a scolpire il marmo di Carrara, per poi sviluppare un’estetica che  “pur partendo da idee michelangiolesche, ne è diventata l’antitesi”. Una ricerca del tutto personale, quindi, in cui la scultura vien fatta non levando, ma assemblando frammenti.

Fratture, corrosioni, fenditure, svuotamenti. Perdimenti. Voci rotte. Parole spezzate. L”intensità dell’immagine che – come un imperativo non urlato – chiede silenzio per corrodere le inutili barriere protettive del cuore.

Poesia caustica, ruvida, graffiata e graffiante. Poesia frastagliata. Dura eppure fragile. Poesia della scultura.

Christian Zucconi capovolge le logiche asettiche e patinate dell’estetica contemporanea. Più precisamente, le decostruisce. Il travertino persiano, delicato e sgretolabile, diventa l’idioma perfetto per raccontare della gracile – e frangibile – identità dell’individuo contemporaneo.

Crepe si dilatano nei corpi delle sue figure, come tagli di luce su una inevitabile vuotezza. Chiodi e innesti metallici sembrano voler tenere uniti i brandelli di un’io frammentato. Un accorpamento di pezzi, tradisce la nostalgica mancanza di una compattezza che non può più essere.

Le spaccature volontarie del travertino sembrano ferite su corpi martirizzati. Lesioni in una integrità psichica che forse non è più possibile. E l’emotività ne esce scorticata.

Corpi come luoghi del vuoto. E dello svuotamento.

Corpi come involucri della miseria. Smagriti e consunti. Fragili più del cristallo. Abusati e corrotti. O reduci da uno sterminio. Sono corpi senza più destino, come direbbe Irme Kertész.

Le scalpellate restano leggibili su quei volti scarnificati. Inserti metallici vanno a serrarne le palpebre. E la materia è resa viva da un’eco di non finito michelangiolesco.

È stato così che lo sbalorditivo incontro con la Madonna del Latte di Christian Zucconi, mi ha riportato alla memoria alcuni versi di Ortus, una poesia di Ezra Pound:

Certo tu sei legata e avvinta,
Sei mescolata con elementi mai nati;
Ho amato un ruscello e un’ombra:
Ti prego entra nella tua vita.
Ti prego impara a dir ‘Io’,
Quanto ti interrogo;
Perché non sei una parte, ma l’intero,
Non una porzione, ma un essere

Ed è stato così che ho deciso di intervistarlo.

Christian, come scegli di diventare uno scultore? Esistono artisti del passato che ti hanno guidato nel tuo percorso di formazione?

Sì. Ho scelto la scultura in età assai precoce, e l’incipit mi è giunto una mattina in cui mi recai al Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco di Milano insieme alla mia classe. Avevo circa cinque o sei anni. Incontrai la Pietà Rondanini e ne rimasi folgorato. Ricordo che non riuscivo a smettere di guardarla. Sentii che in quell’opera era racchiuso e riassunto un intero mondo. Quell’incontro mi segnò, fu come una scalpellata al mio cuore. E mi fece capire cosa volevo fare io, da grande…

Quella Pietà è un non finito: è forse questo aspetto che ti ha colpito maggiormente?

Esatto! La poetica del non-finito fu il vero incipit. Trovo che Michelangelo sia il più grande scultore mai esistito, ma il mio desiderio è sempre stato quello di operare una sorta di rovesciamento dei canoni michelangioleschi e di quella visione antropocentrica che impregnava la sua poetica. Per uno scultore contemporaneo non può valere l’idea del blocco unico al cui interno vive l’opera e al cui interno esiste una forma da trovare. Sarebbe anacronistico raccontare la contemporaneità, l’uomo postmoderno, con un materiale forte e compatto come il marmo di Carrara. Noi siamo fatti di frammenti, siamo mescolanze. Combinazioni. Siamo una miscela di classicità, cristianesimo, filosofie orientali. E portiamo addosso le cicatrici di queste contaminazioni che ci tramutano in creature ibride e fragili. Il concetto di unicità e compattezza non si può più applicare all’identità dell’individuo contemporaneo.  Ho quindi iniziato a cercare un materiale che fosse più adatto al mio scopo. Volevo che le mie sculture  non apparissero forti ed eterne, ma scalfibili e invecchiabili.  Come l’uomo, per cui ho iniziato ad utilizzare scarti di lavorazione, assemblandoli per ricavarne un blocco fragile.

E poi hai scoperto il travertino persiano. Come sei arrivato a questo materiale? E per quale ragione lo hai scelto?

Il travertino persiano è un materiale pregiatissimo e delicatissimo, generalmente viene usato per realizzare rivestimenti. Ha un colore roseo che evoca l’incarnato, ed è un materiale cariato, sofferente, pieno di buchi e lesioni. Mentre lo si lavora si sgretola o si spacca. Ed io l’ho scelto proprio per queste sue caratteristiche: ho deciso di trasformarne i difetti in pregi. È stato, come dire… amore a prima vista!

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Christian Zucconi, Masquerade (2012), Pistoia Sotterranea, Courtesy Pistoia Sotterranea, Ph. Christian Zucconi

Come nasce una tua opera? Parti da uno shooting fotografico o fai posare dei modelli?

Nulla di tutto ciò. Non realizzo shooting,  non realizzo disegni preparatori e solitamente non faccio neppure posare modelli. Entro direttamente in dialogo col materiale, senza fasi preliminari di studio e ricerca. Parto da un’idea già pronta nella mia mente.

Ho visto alcune tue opere in cui i volti sono sporchi di nero. Come nasce questa scelta? E perché?

Quelle che tu citi sono sculture di recente produzione. Ho deciso di impregnare alcune figure di una tintura che sporca il travertino con tonalità molto scure, e l’ho fatto con lo scopo di sottolineare l’atrocità di alcuni avvenimenti. Ho usato questa tintura quando ho scolpito uno stupro, ad esempio. Ma l’ho usata anche per tradurre in chiave contemporanea alcuni miti, come l’episodio in cui Edipo si acceca. Per realizzarlo mi sono ispirato alla versione di Sofocle e alla sua descrizione della “pioggia nera”. Edipo che dopo aver visto la verità di se stesso – colui che ha ucciso il proprio padre per sposare la  propria madre – si acceca,  piangendo pioggia nera e sanguinosa tempesta. Ho scelto la versione di Sofocle ma avrei potuto scegliere quella di Euripide o Eschilo. Da ciascuno di loro la vicenda viene narrata in maniera diversa. Il mito è flessibile, vive finché muta. Le storie bibliche sono invece immodificabili.

A proposito di mito, la genesi del tuo Thyestes è molto particolare. Ce la racconti?

Sì, questa è forse una delle poche opere in cui ho preso a modello qualcuno di reale. Precisamente ho riprodotto me stesso all’età di circa dieci anni, e mio padre. Secondo il mito, Thyestes è colui che ha mangiato il proprio figlio. Dunque io mi sono autoritratto, poi mi sono fatto a pezzi e ho poi posizionato sul tavolo i miei frammenti. Come ho detto prima, solitamente non uso modelli, ma in questo caso è stato un po’ come dire: “io sono il mio lavoro” .

E cosa mi dici invece dell’opera che ha fatto innamorare me del tuo lavoro, la Madonna del Latte? Il suo nome mi ha immediatamente ricordato l’opera trecentesca del senese Ambrogio Lorenzetti, come anche il Dittico di Melun di Jean Foquet, risalente al 1450 circa, in cui la Madonna porge un seno perfettamente sferico e turgido al suo bambino. La tua Madonna del Latte invece è una Madonna Anoressica, che non ha nulla di materno, non ha neppure un seno che ne sottolinei la femminilità, è una creatura completamente svuotata.

Quest’opera è una mia personale riflessione sullo stato in cui versa oggi l’Istituzione ecclesiastica. La Madonna del Latte è un’iconografia simboleggiante la Chiesa che nutre i fedeli. Bene, io trovo che oggi la chiesa non nutra più nessuno. Semmai nutre dubbi. Ed io volevo scolpire esattamente una immagine di impossibilità al nutrimento. Una donna così scarna e svuotata non può nutrire, non ha latte da offrire. Dunque quest’opera diventa l’emblema di questo“svuotamento” di fede e di valori.

Nonostante la tua giovane età, vanti una serie di mostre realizzate in luoghi istituzionali e con curatori di un certo calibro, tra tutte quella del 2010 al Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco a cura di Rudy Chiappini, dove hai ritrovato quel bambino di sei anni che rimase folgorato dalla Pietà Rondinini …  

Questa è una mostra che io ho desiderato fortemente e che ho vissuto come un sogno e come un premio. Volevo tornare in quel luogo, e ho deciso di inaugurarla esattamente il 6 marzo, giorno del compleanno di Michelangelo Buonarroti. Dall’età di sei anni io conservo un’abitudine: ogni 6 marzo realizzo un ritratto di Michelangelo. Per cui desideravo ardentemente che anche la mostra venisse inaugurata in quella data. Mi è stato concesso, così come ho ottenuto che mi venissero aperte sale prima di allora mai state accessibili, come ad esempio la Sala degli Scaglioni, in cui ho esposto il mio Edipo. Per l’allestimento, ho creato un percorso simile ad una via dolorosa, che partiva dall’ingresso del museo per compiersi nello spazio in cui era, ed è,  esposta la Pietà. Ho allestito il tutto in completa solitudine. Era la notte del suo compleanno ed io ho avuto il privilegio di sedermi a gambe incrociate di fronte alla Pietà nel più assoluto silenzio e per un tempo lunghissimo. L’emozione che ho provato è inenarrabile, un momento che non dimenticherò mai più! Ho sempre avuto nei riguardi di Michelangelo un atteggiamento di sconfinata gratitudine, di reverenza e vicinanza spirituale, ma mai di sfida o competizione. Sarei come Marsia che col suo flauto tenta di sfidare Apollo! Non ha alcun senso. Anzi, devo dire che qualcosa accadde quella notte. Mi sentii come legittimato a prendere commiato dal suo insegnamento e a cercare veramente la mia strada, il mio idioma. È stato come se mi avesse dato un bene placido. È stato da quel momento che ho iniziato ad inserire nella mia ricerca anche i nuovi media. Di recente ho realizzato un video in cui io stesso divento il mio lavoro, mi scalpello, e i graffi fatti a colpi di gradina (uno scalpello a più punte) sul mio corpo ricoperto di polvere bianca, sanguinano davvero.

E della mostra realizzata presso il Museo dell’Opera del Duomo di Prato e curata da Luca Beatrice, cosa ci dici?

Ah, è stata una mostra importantissima anche quella: in quell’occasione ho esposto un bambino Gesù non scampato alla strage degli innocenti. Il percorso partiva dal museo e si concludeva nelle cripte, includendo anche il chiostro romanico. L’allestimento è stato studiato in modo che, grazie ad una particolare fuga prospettica, il bambino Gesù morto venisse restituito alla madre, ovvero alla  Madonna del Latte, collocata come opera ultima, in fondo al percorso.

Christian, cosa bolle in pentola? Quale sarà la tua prossima mostra?

La mia prossima mostra personale è ormai pronta: si intitolerà Garbage Memory e si terrà a Pistoia, presso l’antico Ospedale del Ceppo, nei locali sotterranei e negli spazi dell’anfiteatro anatomico. Verrà inaugurata venerdì 10 maggio 2013. La curatela è di Francesca Giunti e Michela Tucci. Il testo critico invece è di Filippo Ozzola.  I locali sotterranei dell’Ospedale sono molto umidi e bassi, per cui in alcuni punti bisognerà chinarsi. Il percorso è difficoltoso, e mi piace proprio per questo. Lo concepisco quasi come una sorta di discarica della memoria, per usare le parole di  Calvino. Risalendo dai sotterranei, emblema dell’inconscio, si giungerà all’anfiteatro anatomico settecentesco, luogo di un fascino estremo e completamente invaso di luce. Qui, sul tavolo anatomico, esporrò il mio Cristo morto.

A Milano invece arriverò il 23 maggio, in una collettiva curata da Luca Beatrice, ispirata al suo recente libro Sex. Erotismi nell’arte da Courbet a YouPorn. La mostra si intitolerà proprio Hot e verrà allestita presso la Galleria San Carlo. Porterò la mia Tiresia, personaggio mitologico che da donna si trasforma in uomo e da uomo poi torna ad esser donna. L’ho scolpita  nel frangente della metamorfosi. Ha un’impostazione anatomica maschile, mani grandi e ossute, ma presenta un sesso che potrebbe dirsi femminile, anche se in realtà non è verosimile. Più che un organo genitale, sembra una ferita.  Sull’opera verrà proiettato un video di Mustafa Sabbagh, in cui una figura femminile depersonalizzata si muove piano inscenando una masturbazione: il risultato è l’illusione visiva delle mani della mia scultura in movimento.

 

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