Entrando in relazione con le grandi tele di Cecily Brown l’occhio, prima ancora dello sguardo, ti chiede tempo. Il tempo necessario alla pupilla per fare di quel chaos apparente e frastornante un cosmo sempre nuovo.
Entrare in relazione con queste composizioni è un’operazione che richiede una partecipazione attiva. Uno sforzo che non sempre siamo disposti a compiere.
Certo, puoi “dare un’occhiata”, ti puoi fermare alla schiuma dove uno sguardo “italiano” può cogliere confusione, trasandatezza, approssimazione.
Puoi fermarti un passo più in là, ed entrare allora in un ambito decorativo. Certo è che come quell’infinito groviglio di segni, di azioni, di tempo, momenti che coprono scoprendo nuovi e altri momenti, possano nel loro insieme creare un insieme anche decorativo è cosa straordinaria.
Se però si decide di varcare la soglia, di entrare letteralmente nell’immagine, aiutati dalle dimensioni spesso monumentali delle opere in mostra, allora la fruizione diviene fluida, mobile. In quel chaos iniziale ogni segno perde la sua rozza iniziale casualità e si fa frammento. E nella pittura di Cecily Brown non c’è modo di dare all’astrazione una testa, uno scettro di comando. La vita, nelle sue infinite manifestazioni empiriche si fa pittura attraverso la frammentazione del ricordo, del desiderio, della paura. Tutto ciò ci appare e scompare, danza nella nostra retina senza bisogno di filtri.
L’esperienza che ne deriva è un’esperienza liquida a sua volta. Ritorni su una tela appena vista e anche se ricominci il tuo guardare da un punto, un volto, un corpo già visto, da lì ti ritrovi altrove. E altrove.
Da un punto di vista formale sono fuori discussione i “debiti” di riconoscenza nei confronti di Bacon e De Kooning. Del primo si ritrova lo sguardo disincantato, sardonico, provocatorio. Il fatto che la Cecily Brown sia una giovane donna dall’espressione pulita e dal sorriso solare dà a queste orge di carne (prima che di corpi) un che di ancor più disturbante e inatteso. Del secondo si ritrova l’atmosfera generale. Si tratti della grande Porta sul fiume del 1960, o della carne delle sue donne, la materia pittorica riporta lì, sebbene, nel caso di Cecily Brown, questa appare più liquida nell’uso del colore e più strutturata. Il gesto pittorico di De Kooning in Cecily Brown è sempre in qualche modo narrativo. Anche nel gesto apparentemente più liberamente astratto, ritroviamo frammenti, il frammento di un frammento del dipinto. E anche questo, visto all’interno di un’insieme di opere come nell’esposizione torinese, diventa a sua volta frammento di un unico grande lavoro che diventa flusso, corrente. Un’opera unica in divenire.
Spesso il suo lavoro viene associato per un motivo o per l’altro a quello di Velasquez, Goya, Soutine e altri. Questo dà l’idea di un lavoro, il suo, che vive nella pittura e nella sua storia, trasuda Pittura. Quasi che ogni esperienza possa essere vissuta attraverso il ricordo sedimentato di un’opera, un artista, un frammento.
Rispetto a questo punto l’essere cresciuta accanto ad un padre come David Sylvester, uno dei maggiori critici inglesi, “di casa” nello studio di Francis Bacon o Lucian Freud o altri, dà l’idea dell’aria respirata. Una scuola di quelle che possono castrare e buttare al macero le velleità artistiche di chiunque. Oppure.
Oppure tutto questo si fa “naturale” come naturale appare l’infanzia di ognuno, anche la più straordinaria o nefasta, e tutto questo, allora, scorre sottopelle, ed emerge in un lavoro come questo.
Un lavoro carico di storia moderna, ma assolutamente attuale.
Una mostra quindi che fa il punto undici anni dopo quella del MACRO, anch’essa curata da Danilo Eccher, sul lavoro di uno degli artisti più interessanti e vitali del panorama artistico (non solo pittorico) internazionale.
Una tappa che dovrebbe essere obbligata per ogni studente ed una occasione di confronto importante per ogni artista, nonché una possibilità per chiunque desideri farsi un quadro su cosa possa essere la pittura (e l’essere pittore) oggi.
Cecily Brown
GAM Galleria d’Arte Moderna
www.gamtorino.it
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