CAPOGROSSI. UNA RETROSPETTIVA

0 Posted by - November 11, 2012 - Approfondimenti

Al Museo Peggy Guggenheim di Venezia si può visitare la mostra Capogrossi: una retrospettiva. A curarla, è stato il noto critico d’arte Luca Massimo Barbero.

I quadri di Giuseppe Capogrossi si riconoscono facilmente per il dettaglio del cosiddetto tetradente. Dipinto a partire dal 1949, esso identifica un segno, tendenzialmente a forma di “pettine”. Comunque, la retrospettiva di Capogrossi a Venezia ci mostra tutto il suo “percorso estetico”. Nel primo dopoguerra, lui comincia a dipingere essenzialmente influenzato dalla metafisica di De Chirico e dal cubismo di Picasso e Braque. Ma allora ci divertiremo a scovare le prime “suggestioni” del tetradente, ancora “grezzo” a livello concettuale. Nel quadro che s’intitola Ballo sul fiume, Capogrossi ci mostra un gruppo di bagnanti. Le loro figure sono muscolose, avendo dunque la stessa “concavità da manichino” cara a De Chirico. L’architettura metafisica (col suo geometrismo), però, perde i toni più “oscuri”, aperta pure visivamente (col gazebo, dove alle travi mancano le tende, facendo così passare i raggi solari). In alto, i vari gonfaloni si potrebbero librare nel cielo. In realtà, il quadro non va percepito in via troppo “spensierata”. Tre persone guardano verso di noi, come se la nostra presenza ne avesse disturbato il piacevole ballo. In loro, aleggia un’aria un po’ sospettosa. L’eventuale invadenza del nostro sguardo farebbe da contraltare percettivo per i gonfaloni, se questi volassero via, salendo in cielo. Il quadro è dipinto da Capogrossi nel 1935. L’Italia ha già conosciuto il tifone del totalitarismo (con la propaganda che toglie la spensieratezza allo sbandieramento delle idee). Poi, nel 1939 le persone cominceranno a sgranare gli occhi innanzi al dramma della Seconda Guerra Mondiale.

Nel quadro Ballo sul fiume, un gonfalone bianco si vede “dentellato”. Capogrossi narra che da bambino, all’età di dieci anni, si recò con la madre in un istituto per ciechi. In quel momento, ebbe l’intuizione del tetradente. Alcuni bambini disegnavano più linee “vivaci”, di colore nero. Naturalmente, quelle non rimandavano a figure reali (impossibili da conoscere, per il cieco). Capogrossi però aveva capito che pure l’interiorità era disegnabile. Quando nel 1949 lui espone il primo tetradente, questo si percepisce in maniera essenzialmente geroglifica. La forma basilare “a pettine” dovrebbe pungere e tuttavia il tratto è ampio, per cui lo vediamo “appesantito”, cercandone la stabilizzazione. Inoltre, il tetradente ha nel “manico” la “gobba”: conosciamo le scritture rupestri, agli albori della civiltà. In quelle, spesso si cerca di rappresentare una scena di caccia. Guardato con le punte per terra, e la “gobba” in alto, sembra che il tetradente si configuri come la miniatura d’un tozzo animale: forse un elefante, una mucca od un cavallo. Capogrossi andrà “a caccia” della sua interiorità. Guardando la “gobba”, sempre si parte da un primo punto “a terra” per trovarne un altro. Lì, avremo la percezione d’uno scavo. Con la “gobba”, letteralmente si alzerà un po’ di terra per poi lasciare che questa sprofondi. Qualcosa di simile accadrà nell’interiorità. Questa s’alzerebbe, tramite le più intense emozioni, salvo poi sprofondare nei sentimenti (i quali tendono a trapassare, ossia a perdurare nello svanimento della loro immediatezza). E’ così ammissibile che la gobba visivamente simboleggi l’interiorità. Qualcuno percepirà che la “dentatura” possa calamitare. Mediante la “gobba”, inizialmente il tratto dovrà uscire verso di noi (per i nostri sguardi). Esso però alla fine sprofonderà nel quadro. La linea curva della gobba potrebbe segnalarci il limite d’un campo magnetico. Su questo, cadrebbe il nostro sguardo, dopo aver seguito i denti. Percepiti in maniera magnetica, i dipinti di Capogrossi parranno d’una materialità interiore. Il nostro sguardo letteralmente finirà per attaccarsi alla profondità di se stesso. Noi conosciamo la materialità mediante i sensi. Questi ci attaccano al mondo. Per Capogrossi, il tetradente si farà dipingere non rappresentando nulla di materiale. Il nostro sguardo sarà calamitato, ovvero attaccato verso la profondità di sé. In via percettiva, ci sembra un accentramento. L’attaccarsi fra due enti ne mantiene una delimitazione: anche per questo, lo pensiamo nel materialismo dei sensi. Invece, nell’interiorità bisogna accentrarsi. Capogrossi dipinge quattro denti, come classicamente gli elementi naturali (l’acqua, la terra, il fuoco, l’aria). La “gobba” ci consente d’interiorizzarli nel loro insieme, quindi di accentrarli. Per Capogrossi, la sua pittura mostra lo spazio dove nascono sia le opinioni sia le azioni dell’uomo. Se il tetradente rientrasse nel geroglifico, lì avremmo un background estetico più vicino all’oralità che all’alfabetismo.

Pure il grande critico d’arte Giulio Carlo Argan studiò la pittura di Capogrossi. Per lui, il tetradente andrebbe percepito tramite l’orizzonte della “curva” e i piani del vissuto sulle punte. Complessivamente, tale figura cercherebbe di possedere lo spazio pittorico, con la perentorietà del timbro. Argan pensa che il tetradente si percepisca in via magnetica. Una timbratura accade sempre con forza ed immediatezza. I quadri avrebbero pure un loro campo magnetico. Ad esempio, spesso avviene che i numerosi tetradenti si collochino l’uno di fronte all’altro, così da allacciarsi sulle punte. Se visti in successione verticale, li percepiremo in figura quasi elicoidale. Sembra che torni il simbolismo dell’interiorità.

In biologia, conosciamo la struttura a doppia elica del DNA. Essa ha le basi azotate dell’adenina, della timina, della citosina e della guanina: quattro in tutto, come nel “pettine” di Capogrossi. Il DNA identifica il livello materialmente più interiore della vita. Per Argan, i vari tetradenti messi in fila giungeranno a fluttuare, mediante alcune catene attanagliate. Nell’immagine del DNA a doppia elica, si vede qualcosa di simile. Se Argan reputa che il tetradente virtualmente si timbri sulla tela, per noi sarebbe più interessante percepirlo in via orale, come se quello “ci parlasse”. La figura geroglifica in tutti i casi rientra nella civiltà della scrittura. Il tetradente di Capogrossi avrebbe letteralmente un timbro vocale. I suoi dipinti ci parlerebbero dell’interiorità. La voce proviene dalla laringe, e noi non possiamo vedere né la prima né la seconda. Nei dipinti di Capogrossi, i “denti” del “pettine” saranno da immaginare entro una sorta di “bocca” per l’interiorità.

L’antropologo Walter Jackson Ong ci ricorda che nelle culture orali primarie nessuno ha mai cercato una parola tramite un classico dizionario. La scrittura era ancora sconosciuta. Così, alle parole in quanto tali mancherebbe una presenza visiva. Ove qualcosa possa esistere (anche solo astrattamente), con la scrittura si vorrà materializzarla “per noi”. Ciò che semplicemente (naturalmente) si veda, avrà bisogno di stabilizzarsi nella nostra riflessione intellettuale. La scrittura di qualcosa lascia che questa si ri-materializzi astrattamente. E così una semplice visione si rende presente a se stessa, stabilizzata da una riflessione intellettuale che si schermi. Gli uomini che vivono nella cultura orale “primaria ovviamente incontrano le cose materiali (nel mondo). Ma, senza la scrittura, quelle si possono solo vedere, e non vedere nella presenza di se stesse”. Ogni parola si percepirà come un semplice suono. Qualcosa che possiamo richiamare, ma non ricercare. Al suono, manca la presenza “a se stesso” (“ri-materializzata” dalla nostra riflessione intellettuale).

In via fenomenologica, una ricerca presuppone sempre che abbiamo una precisa mira su qualcosa, mentre il richiamo tende a perdersi nel vuoto. Le parole della cultura orale primaria letteralmente non sono rintracciabili. Per Walter Jackson Ong, esse andrebbero solo accadendo. Più che il loro inquadramento concettuale, conta la loro contestualizzazione spaziotemporale. Tutte le sensazioni umane accadono, ma nel suono con modalità diverse. Quello esiste solo nel momento in cui sparisca. Invece, con la vista noi sentiamo sia il movimento sia la staticità, ma preferendo la seconda (che finisce per annullare il primo). Gli occhi funzionano meglio, se la loro immagine non sparisce. La vista tende a fermare il movimento delle cose, così da immortalarle.

Pages: 1 2 3

No comments

Leave a reply