In occasione della 56a Biennale di Venezia l’artista e film maker Beat Kuert presenterà a Palazzo Bembo l’installazione sito specifica (scusate, in italiano suona meglio) FaultLine/TimeLine, parte integrante dell’evento collaterale alla Biennale Personal Structures / Crossing Borders, prodotto da Global Art Affairs Foundation e organizzato da dust&scratches.
Come vedrete dalle sue risposte, Beat ha un’attitudine piuttosto filosofica e con questo progetto dà un “vestito” alla disputa metafisica per eccellenza: esiste il mondo là fuori?
Caro Beat, tu sei un regista, ma sei anche un ricercatore e un artista multimediale. Diresti che fotografia e installazioni video hanno spinto l’arte in una direzione completamente diversa rispetto a quelli che erano una volta i suoi mezzi espressivi tradizionali?
Non ancora! Non si deve parlare di fotografia e video, questi mezzi sono l’arte di ieri. Il linguaggio di oggi é il digitale. E’ fondamentale capire che il mondo é composto da 1 e 0. I musicisti usano il digitale già da tanti anni per creare la loro musica e lavorano su diversi livelli con questa tecnica. I fotografi invece dibattono per stabilire quale sia la vera fotografia, quella digitale o quella analogica, senza capire che la fotografia digitale fa parte di qualcosa che si dovrebbe chiamare augmented reality. La fotografia non é più un mezzo per documentare la cosiddetta realtà, poiché questa vecchia realtà non esiste più e non esiste più questa verità che loro si occupavano di fotografare e documentare. La augmented reality si crea in modo digitale e questo significa sapere che il mondo é composto da 0 e 1, da yin e yang, da to be or not to be!
Sai, per preparare questa intervista mi son dovuto riguardare Metropolis di Fritz Lang, che è un po’ il referente artistico e concettuale del tuo immaginario visivo. Del resto, come disse Jeremy Deller, «Francis Bacon era socialmente impegnato, Warhol era socialmente impegnato» (intervista con Claire Bishop, 12/04/2005). E devo dirti che anch’io la penso così. Ma certamente questo è vero in modo particolare nel tuo caso: FaultLine / TimeLine è un’opera con una critica del presente. Vuoi parlarcene?
Un artista deve cercare di capire il perché del mondo, della vita e cercare una forma per esprimere in modo comprensibile la situazione nel quale lui si trova, la situazione vista in confronto con il “senso della vita”. La mia installazione di Venezia FaultLine / TimeLine usa le immagini di città e di donne disperate per far sentire il mondo nel quale io mi trovo in questo momento. Mi trovo in un mondo scuro dove la “luce” arriva da un “paradiso falso e artificiale”, nel quale mancano tutte le ideologie che danno una ragione di combattere e di credere nel futuro. Questo è il bello di questo tempo, dobbiamo cercare di andare più nel profondo. Non bastano le semplici idee, abbiamo bisogno di qualcosa di più. Per fare ciò dobbiamo capire il bene del disastro, la bellezza della FaultLine, della frattura!
FaultLine / TimeLine: questa diade evoca una connessione fra il concetto di rottura e il concetto di tempo. Lucio Fontana bucando le tele andava al di là dello spazio, tu invece vai al di là del tempo?
Vado al di là del tempo, perché il tempo non esiste. È solo una costruzione che aiuta a capire il tutto. Dobbiamo distribuire i nostri pensieri e le nostre azioni su una timeline per vederli uno dopo l`altro. Dobbiamo dividere il tutto in sequenze invece di vedere l’insieme in un attimo solo. Nascita, vita e morte sono particolari di un mondo intero, sono sempre presenti. La FaultLine è l’abisso e la creazione nello stesso momento, come la Grande Madre è la figura femminile che dà vita, nutre e che divora i suoi figli. Questo fatto ambivalente corrisponde con il mio modo di lavorare con i layers. Le mie opere sono composte da molti layers, posti uno sopra l’altro, e il singolo momento è il risultato dell’opacità dei diversi livelli sovrapposti. Allo stesso modo nella mia video-installazione la nostra posizione e la direzione dello sguardo cambia ciò che compone il nostro momento, ma di fatto il tutto non cambia mai.
Una delle mie massime soddisfazioni (proibite, per la gran parte dei casi) è stare con l’artista nel momento in cui ha di fronte a sé, diciamo, la “tela bianca”. A prescindere dal mezzo espressivo, questo momento è l’arena emotiva in cui il nulla ha da riempirsi (a volte anche solo di …altro bianco!). Come nasce una tua opera?
Il discorso della tela bianca mi interessa molto, ma non mi sembra corrispondere alla domanda iniziale. Il bianco per me non è l`inizio ma la fine del mio lavoro. È l’addizione di tutti colori ma anche di tutta la vita, vuol dire l’insieme di tutto, il “Nirvana” o il Paradiso. Così, per opposto, il nero potrebbe esser l’inizio del mio lavoro, la ricerca della luce! Se guardiamo la mia installazione, sembra che io abbia ancora una lunga strada davanti a me. Ma forse questa è anche la situazione dell’arte contemporanea o del mondo di oggi: una lunga strada ancora da percorrere!
Secondo te un’opera ha necessariamente bisogno di un pubblico? Se nessuno guardasse i tuoi lavori, continueresti comunque a farne?
Ognuno di noi si pone la domanda fondamentale, “esisto?”. Senza una risposta non esistiamo. L’arte è un modo ideale di porre questa domanda. Prendere un pennello e fare un cerchio su un muro bianco mi dice che questo cerchio è il mondo e questo cerchio è il mondo che hai creato tu. Per il bambino che fa questo gesto è importante che vi sia la madre che gridi “Che cosa hai fatto!”, perché da queste parole il bambino capirà “Io esisto”. Il fatto che il muro bianco non sia più puro dà la risposta che si stava cercando. E quando io continuerò il mio disegno e farò con poche linee degli uomini, una donna e un uomo, io, guardando queste figurine, comincerò un lungo e profondo discorso tra me e il muro bianco.
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