Il peggior nemico di Aung Ko (1980), artista birmano, attivista politico, indignato per la mancanza di libertà e per le condizioni di povertà del suo Paese, che ha subito la dittatura militare dal 1992 al 2010, è se stesso. Primo Marella presenta la prima mostra personale di Aung Ko, con una serie di opere e installazioni che anche nel titolo pongono domande sulla rabbia e il senso della rivolta, sui limiti di un’esistenza in un paese dove la libertà di esprimersi e progettare il futuro è un lusso. Aung Ko affronta temi universali, con opere “glocal” che vanno al di là dell’opposizione politica, come si evince dalla serie di dipinti We are Moving e How Should We Do?, che si riconducono alle esplosioni in rapida successione di tre bombe nei pressi del lago Kandawgyi a Yangon, in Birmania, il 15 aprile 2010. Ma è ancora più “pirandelliano” e inquietante con nove ieratiche sculture che lo ritraggono in periodi diversi della sua esistenza, nudo, con il corpo glabro, ancora adolescenziale, interamente ricoperto da una patina d’oro.
Questi “manichini” dorati che rasentano il kitsch rappresentano l’artista in atteggiamenti aggressivi o pacati, seduto, sdraiato in posizione di riposo o in piedi e appoggiato a una colonna.
Sei figure invece hanno una pistola in mano e si prendono di mira a vicenda: una è puntata verso chissà quali fantasmi o paure che agitano l’immaginazione dell’artista, la cui la nudità rimanda alla vulnerabilità umana e l’oro all’identità della Birmania – denominata anche “terra d’oro” per la prevalenza delle dorature degli edifici religiosi. Aung Ko ha commentato che questi autoritratti plasmano la rabbia di chi come lui è costretto a vivere nella menzogna, dove verità e libertà sono tabù – il suo lavoro è censurato, Aung Ko mette a repentaglio la sua vita quando le opere sono troppo esplicite, lui non può viaggiare all’estero e per esportare le sue opere sono necessari interlocutori potenti, molti soldi e mesi di trattative. Fare l’artista potrebbe apparire un condizione privilegiata, ma in realtà è solo un’apparenza ed è paradossalmente anche la causa della sua inquietudine.
I birmani che vivono e lavorano all’estero si chiamano tra loro Mister Gold, anche se queste persone non realizzano i loro sogni dorati e spesso vivono in condizioni di miseria e sono ridotti a “schiavi” della modernità, costretti a fare i lavori più umili e rischiosi.
All’ingresso della galleria minimalista impressionano ed emozionano un gruppo di nove sculture completamente bianche: sono la trasposizione tridimensionale delle figure ritratte nei dipinti di cui si è accennato sopra che evocano l’attentato del 2010 e immobilizzano quel drammatico istante, una testimonianza storica dell’assassinio del futuro di un popolo.
Oro e bianco sono i non colori che esprimono l’essenza del colore. Il bianco per Aung Ko non significa simbolicamente una fuga dal reale, ma al contrario si trasforma in una critica contro la condizione del suo popolo con un sistema di potere che nega l’individuo a lo porta a smaterializzarsi in una vita anonima e omologante. Meritano qualche minuto di attenzione i suoi video e in particolare quello che rappresenta una performance-installazione intitolata H.u.m.m (2007), eseguita nel mese di gennaio a Thuye’d an, sulle incantevoli rive del fiume Irrawaddy. Qui la combustione di tredici scale di legno costruite con la collaborazione degli abitanti delle campagne circostanti, un’azione ripetuta per più notti, assume un valore simbolico, come i gesti dell’artista immerso nell’acqua che appare come in trance, protagonista di un rito iniziatico complesso, intriso di credenze popolari e religiosi, in cui il paesaggio notturno e diurno si riflettono nell’acqua e si fondono misteriosamente con il fuoco e l’aria. Nell’ultima parte della performance si vedono gli scheletri anneriti delle scale legate tra loro e trasformate dall’artista in struggenti sculture, in cui la combustione assurge a metafora della trasmutazione della materia. La scala è il simbolo dell’ascesa verso il trascendente, il fuoco distrugge e trasforma il legno in cumuli di cenere che, dissolti nell’acqua, rappresentano la ciclicità della vita e della morte, ma secondo l’artista questa perfomance denuncia metaforicamente una società in cui non ci sono “scale” che consentono agli individui di andare oltre: le sculture si ergono a totem del fallimento di una generazione. E lo stupro della speranza di un futuro migliore non è soltanto il problema della Birmania, ma è il cancro del nostro tempo.
Aung Ko | Breakfast with my enemy
Primo Marella Gallery
viale Stelvio 66, Milano
info@primomarellagallery.com
www.primomarellagallery.com
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