Spesso di una mostra d’arte si magnificano le dinamiche percettive tra le opere, lo spazio espositivo e l’osservatore. Ma questa scoperta è il più delle volte un vuoto truismo: è banalmente vero che un lavoro d’arte provochi qualcosa (qualunque cosa, anche la totale indifferenza nell’osservatore e la totale estraneità allo spazio). Il riconoscimento della sussistenza di queste relazioni è sovente (non sempre, ma il più delle volte) un surplus interpretativo: è ridondante, dice di più e dice troppo, rispetto all’ordinamento della mostra in sé.
Ma nella mostra di Aqua Aura lo spazio, le opere, l’osservatore agiscono come una triade in cui ogni elemento ha senso in quanto intrinsecamente connesso all’altro. Ciò si accompagna al riconoscimento di un preciso progetto espositivo: Aqua Aura non permette all’osservatore di muoversi costruendo il percorso a proprio piacimento e leggendo le opere secondo il suo intendimento soggettivo. Anzi, come un cineasta d’eccellenza, Aqua Aura ci fa vedere esattamente quello che vuole lui: ma senza linee guida predeterminate. Semplicemente esponendo (ostentando. E più avanti sarà chiaro perché) il lavoro d’arte secondo un’unica direttiva: quella dell’occhio-che-vede.
Sono due le tipologie dei soggetti in mostra: ritratti e paesaggi. I primi, ci si va a sbattere contro. Gli altri, li si deve cercare. Non sussistono gradi gerarchici, gli uni non sono più importanti degli altri, né vi sono codici visuali da decrittare: le opere sono qui e sono queste. Ma, come scrive Alessandro Trabucco, esse determinano un “cortocircuito visivo”. Un’impasse che è sviluppata da due fattori:
1. l’aspetto irriducibilmente proteiforme della ricerca visiva di Aqua Aura, tale da far pensare che gli autori siano due
2. l’o-scenità (alla Carmelo Bene, nel senso dell’esser totalmente fuori-scena) di una serie (i paesaggi) e l’ostensione dell’altra (i ritratti)
I concetti chiave di questa mostra sono il vedere e il non-vedere, rispetto ai quali l’o-sceno e la messa-in-scena sono i complementi “cortocircuitati”: l’o-sceno è messo-in-scena. Innanzitutto: l’o-sceno è esibito in quanto ostentato. Il significato puro di “ostensione”, infatti, non ha quell’accezione deteriore cui l’uso comune l’associa: la mostra pubblica della Sacra Sindone di Torino, per esempio, è detta “ostensione”. Quindi l’o-sceno di Aqua Aura è esibito in quanto presentato, messo a nudo, messo-in-scena, ostentato, in tutto il chiarore del visibile. D’altro canto, il non-o-sceno (il non-non fuori scena, doppia negazione che è un’affermazione) non è messo-in-scena, ma messo-dietro-alla-scena: per guardarlo, bisogna cercarlo.
Ma qual è la materia di cui sono fatte queste o-scenità e queste cose visibili? Volti devastati e paesaggi extra-fenomenici. I primi, esibiti. Gli altri, nascosti. I ritratti, che dovrebbero essere tanti Elephant men da tenere segreti (segregati), sono l’osceno (senza trattino) messo in scena. I paesaggi, invece, sono il visibile nascosto: dovete andarveli a cercare scostando le tende a filo in lamé rosso dietro alle quali essi stanno. E’ questo, il tocco del cineasta Aqua Aura, che ci fa vedere esattamente quello che vuole noi vediamo.
Mi perdonerete se cito me stesso, ma due anni fa curai una collettiva1 incentrata sul paradigma voyeuristico della relazione osservato/osservatore (nella fattispecie: opera d’arte/fruitore. E naturalmente il fil rouge che legava i lavori in mostra era rappresentato dal corpo). Sorprendentemente, in occasione di questa personale di Aqua Aura curata da Alessandro Trabucco, ritrovo, declinato in una forma inedita, quel rovesciamento della relazione di visibilità fra osservatore e osservato. Ma qui il guardare prende la forma dell’atto voyeuristico dal referente inverso: l’osceno (senza trattino!) entra in scena, mentre il visibile è o-sceno (fuori di scena: per osservarlo dovete fare i guardoni). Non si tratta di una sofisticheria cresciuta nell’etere del cervello di Aqua Aura: questo spostamento di relazioni è pienamente funzionale all’obiettivo del progetto artistico, che consiste nell’ostentare ciò che si vuole occultare e nel nascondere ciò che si vuole esibire.
Come già detto, i soggetti in mostra sono di due tipi e in entrambi i casi abbiamo immagini fotografiche rielaborate in fase di postproduzione: ritratti (Portraits Survivants) e paesaggi (Frozen Frames). Portraits Survivants consiste in una serie di scatti realizzati in studi di posa con modelli la cui identità è celata da una maschera deformante, devastante, aberrante, quasi spaventevole. Essi rappresentano la messinscena dell’o-sceno, l’imposizione visuale del non guardabile: infatti nell’ordinamento della mostra questa serie è immediatamente accessibile all’occhio-che-guarda, impattando come una pioggia di luce su un tappeto di cristallo. Di converso, Frozen Frames consta di una serie di immagini mentali, paesaggi non naturali in quanto non realmente esistenti nel mondo là fuori, verosimiglianze visuali di spazi congelati in una sur-realtà extrafenomenica.
Boudoir. Questa mostra di Aqua Aura si intitola Boudoir. Per deformazione professionale penso alla Filosofia nel boudoir del divin marchese, quel Donatien Alphonse François de Sade autore del classico libro da leggere con una mano, come disse Baudelaire. Cose sconvenienti, da guardare di nascosto. Cose da cercare col cuore a mille per il fascino del proibito. Cose oscene, cose inguardabili. Nel caso del progetto di Aqua Aura, la pruderie e le o-scenità non sono naturalmente le stesse, ma la spinta propulsiva dell’occhio-che-guarda sì. Aqua Aura ci obbliga a guardare ciò che forse non vorremmo e a cercare ciò che vorremmo, ma in entrambi i casi la curiosità del voyeur ha vita facile. Alla base dell’operazione è, io credo, una ridefinizione del concetto di ordinamento di una mostra, che si accompagna a un invito a riflettere sulle declinazioni di quella parola così usata e abusata da aver perso ogni connotazione semantica: il bello. I volti grotteschi, deformi e devastati della serie Portraits Survivants ci guardano in faccia, ficcano i loro occhi nei nostri e noi non possiamo fare a meno di guardarli. Essi sono lì, ce li abbiamo davanti e ci mettono costantemente in gioco, mentre se vogliamo riposarci un po’ dobbiamo spostare le tende a filo rosso allestite nello spazio espositivo, dietro alle quali vediamo il vero o-sceno che sta fuori scena, i paesaggi siderali della serie Frozen Frames, paesaggi mentali non meno veri di Portraits Survivants. Perché c’è tutto Aqua Aura, qui, nell’irriducibile diversità delle due produzioni in mostra. Un approccio d’ordine metateorico sarebbe fuorviate, in quanto ad essere messe in gioco non sono tanto le declinazioni estetiche, quanto le dinamiche percettive fra osservatore e opera d’arte, che sussistono solo e soltanto attraverso un’ineliminabile componente spaziale, senza la quale il tutto non sta in piedi. Aqua Aura è riuscito nell’impresa di dar forma sensibile a un’idea senza fare arte concettuale e per questo non occorre stare troppo a descrivervi cosa c’è in mostra da guardare: sarete voi a farlo e Aqua Aura vi ci obbligherà.
1. BTF Gallery – Bologna – Il soggetto sconosciuto – a cura di Emanuele Beluffi (http://emanuelebeluffi.wordpress.com/2011/12/19/il-soggetto-sconosciuto-upskirt/)
Paolo Tonin arte contemporanea
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Orario di apertura dalle 10,30 alle 13 e dalle 14,30 alle 19 dal lunedì al venerdì, sabato su appuntamento
Opening giovedì 26 settembre ore 19/22
27 settembre/ 1 novembre 2013
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