Che avvenire poteva avere un essere (considerato da molti come un oggetto) respinto dalla madre, non riconosciuto dal padre, canzonato dagli uomini, scansato dalle donne, deriso dai bambini, emarginato dalla società? Dove volete che finisse, se non in manicomio?
Non potevo non citare il bel testo del collezionista Giuseppe Amidei come introduzione a questo articolo sulla grande retrospettiva (180 opere, alcune mai esposte prima d’ora) dedicata ad Antonio Ligabue a Palazzo Bentivoglio a Gualtieri.
Quello della follia, insieme alla definizione di pittore naïf, è lo stigma al quale la critica ha inchiodato per anni il povero Antonio Ligabue.
Ma, come viene più volte affermato con forza dagli autori dei testi di presentazione della mostra che compongono il bellissimo catalogo Skira, si tratta di categorizzazioni limitate e, soprattutto nel caso della definizione di pittore naïf, totalmente errate (ma se anche fosse, signora mia?)
Certamente Ligabue fu affascinato da Rousseau il Doganiere (impossibile non scorgere le recondite armonie che li legano), ma che importanza ha, in effetti, imbrigliare un autore in una cella teoretica, soprattutto quando questi è per essenza libero?
E del resto nemmeno la “follia” rappresentò il “motore immobile” dell’opera di Antonio Ligabue: essa non spiega tutto, forse non spiega proprio nulla, ma certo non posso non rimandare i miei piccoli lettori al breve ma interessantissimo testo in catalogo di Gianfranco Marchesi, che interpreta l’opera pittorica di Ligabue proprio alla luce della psicologia e delle neuroscienze.
Poco presente nei musei, isolato in un collezionismo pertinace ma un po’…”agée”, Antonio Ligabue è ahinoi rimasto confinato in una dimensione espositiva troppo limitata, sebbene alla luce di una esperienza espositiva che ha spesso coinvolto spazi e personalità di indiscutibile spessore culturale: Marino Mazzacurati, suo vero e proprio scopritore, ebbe un felicissimo intuito a promuoverne la personale, presentata da Giancarlo Vigorelli, alla Galleria Russo di Roma. Da lì in poi fu un’ascesa.
L’attuale retrospettiva, a cinquant’anni dalla scomparsa, ordinata negli splendidi spazi di Palazzo Bentivoglio e promossa dalla Fondazione Museo Antonio Ligabue, è assolutamente da vedere.
Allestita da Mario Botta nel sontuoso Salone dei Giganti, con una sala dedicata alle carte, l’ordito espositivo mette in luce i “motivi” fondanti della produzione d’arte di Antonio Ligabue: gli animali, gli autoritratti e gli assai più sporadici ritratti.
Questa grande mostra, diretta da Sandro Parmiggiani, permette al visitatore di addentrarsi con silente riguardo in un universo artistico illuminato da un’unica stella che, come Venere, brilla all’alba e al crepuscolo: la ferinità (gli animali, gli unici esseri viventi con cui Ligabue riuscisse a interagire serenamente) e l’inquietudine (gli autoritratti, spesso attraversati da un’ombra, come un sussurro strisciante nel buio: Ligabue non ci guarda mai in faccia).
Questo sfortunatissimo pittore ci fa pensare a un altro infelice e grande, Friedrich Nietzsche: certamente non per le scorribande del pensiero, del tutto incomparabili ovviamente, e nemmeno per il comune travaglio esistenziale, ma per una certa comune “dedizione” al lato selvaggio della vita.
E, fondamentalmente, perchè entrambi nacquero postumi.
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