Nel 1972 Alighiero Boetti (Torino 1940 – Roma 1994) arriva a Roma, abbandona la natia Torino negli anni della contestazione, quando la città, polo industriale per eccellenza, era aperta a un’arte urbana, alle azioni performative e alle sperimentazioni di artisti che utilizzavano soprattutto i cosiddetti materiali poveri. Ma il movimento dell’Arte Povera, teorizzato nel 1967 da Germano Celant e fortemente permeato da un rigorismo ideologico, non si addice al nomadismo intellettuale di Boetti, piuttosto incline a nuove esperienze, insofferente a definizioni e ripetizioni stilistiche e all’insegna dell’estetica del disordine. Alighiero Boetti nella Roma imperiale, intrisa di mitologia e leggenda, in bilico tra Storia e Cinecittà, trova un luogo di transito, un porto di partenza per un viaggio successivo, un “tappeto volante” per un altrove, dopo il suo quarto viaggio in Afghanistan, paese che aveva iniziato a frequentare dal 1971, dove a Kabul aprì il suo One Hotel.
La mostra Alighiero Boetti a Roma, ospitata al secondo piano del MAXXI curata da Luigia Leonardelli, racconta in una trentina di opere il rapporto dell’artista con la Città Eterna e con altri artisti nomadi, il napoletano Francesco Clemente (1952) e il bolognese Luigi Ontani (1943), giunti a Roma nel 1970. Prima di stabilirsi in questa città, l’artista torinese aveva già iniziato a lavorare sul tema del colore industriale, con i tessuti mimetici nel 1966. Però è a Roma che il colore si espande, liberandosi sulle superfici bianche e generando iconografie e composizioni ampie e rappresentazioni figurative in cui la sua ars combinatoria, già densa di analogie e corrispondenze simboliche, prelude a significati ulteriori. Scrive Boetti :
Qui (a Roma, n.d.r.) sono uno straniero, sono un soggiornante, per cui ho sempre la coscienza di dove sono
e ancora:
Ho scoperto a posteriori che a Torino non usavo mai i colori. Forse percepisco il troppo rigore della città…mentre a Roma ho capito la bellezza di fare molto,di fare di più rapidamente e allegramente
In questo museo progettato da Zaha Hadid come uno spazio aperto e dalle linee fluide, Boetti incanta per felicità cromatica e leggerezza di segno, dopo essersi emancipato dai concettualismi condotti nell’ambito della ricerca sui materiali nella plumbea Torino. A Roma, dove non c’era una corrente dominante, l’artista conosce Mario Schifano, noto per un cromatismo vivacissimo, intraprendendo un percorso soggettivo contro ogni stile e regola compositiva, in cui ogni pensiero diventa opera. La mostra sottolinea il rapporto di scambio e di comunanza di interessi formali con il bolognese Luigi Ontani, riconoscibile per le sue fotografie acquerellate, e il napoletano Francesco Clemente, allora diciottenne, diventato assistente di Boetti, dal segno onirico e fiabesco. Questi artisti vagheggiano fughe in Oriente e vivono il viaggio come una ricerca e non come una meta.
L’esposizione al MAXXI indaga non tanto il contesto storico romano di quegli anni controversi o le vicende biografiche nel dettaglio, ma mira a mappare concettualmente quel particolare clima, le relazioni, gli scambi e l’atmosfera che l’artista diventato icona ha creato intorno alla sua carismatica personalità, influenzando dopo la sua morte le generazioni a venire. Lo testimonia l’opera di Jonathan Monk (1969, Leicester; vive e lavora a Berlino), Untitled and unfinished (Afghanistan), che apre il percorso espositivo ispirato alla geografia immaginaria di Alì-ghiero, beduino, affabulatore e inventore di storie: un filmato in 16 millimetri con una ripresa fissa sui laghi di Band-e Amir, luogo surreale nel centro dell’Afghanistan in cui Boetti desiderò che venissero disperse le proprie ceneri.
In un certo senso Boetti è il compagno di strada di Italo Calvino e Georges Perec , perché sono accomunati da fughe oltre la realtà: anche i titoli delle sue opere sono evocativi, basti pensare a opere come La Natura è una faccenda oscura.

Alighiero Boetti, Faccine, 1977,
Collezione Agata Boetti, Paris, Courtesy Archivio Alighiero Boetti, Roma
© Alighiero Boetti by SIAE 2002
La mostra Alighiero Boetti a Roma vale un viaggio a Roma anche solo per vedere la prima versione delle Faccine, proveniente da una collezione privata ed esposta raramente, realizzata a quattro mani con la figlia Agata, che allora aveva cinque anni. Godetevi anche i pezzi del Fregio, originariamente composto da ventotto elementi, esposto sopra Orme I e Orme II, presentate nella Biennale di Venezia del 1990, opera monumentale con cui Boetti vinse il Leone D’Oro. Nel dedalo di segni in bilico tra ordine e disordine, Borges si sentirebbe a casa, in questa Babilonia della comunicazione: parabole visive che si espandono su una superficie bianca che, al di là dei possibili rimandi concettuali, è pur sempre un gran piacere per gli occhi.
Il colore è l’espressione più semplice della vitalità e in quest’epoca del disincanto sentiamo un gran bisogno di favole. E a proposito di esotismi intrisi d’oriente, toglie il respiro l’installazione delle Poesie con il Sufi Berang, amico di Boetti, composte da cinquantuno elementi, in cui frasi di Boetti in latino si mescolano a frammenti di poesie del Sufi Berang e qui perderete lo sguardo in un oceano di lettere ricamate su arazzi multicolori.
In questo contesto non potevano mancare le celebri mappe, una del 1971 di proprietà del MAXXI e l’altra del 1984, dove si vedono un Afghanistan bianco e geografie impossibili – ricamate da artigiane afghane – che abbattono i confini del mondo. Perché, disse Boetti :
in fondo il mondo è piccolo e le nostre possibilità di creare nuove forme si esauriscono presto e facilmente
Alighiero Boetti a Roma
MAXXI
via Guido Reni 44, Roma
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www.fondazionemaxxi.it
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