Nel corso di questi – non – lunghi anni di frequentazione con gli artisti ho avuto modo di appurare come la tematica del corpo – e della corporeità – sia ormai diventata una costante di buona parte della produzione d’arte, declinata nelle forme espressive le più varie, dal video alla fotografia attraverso la scultura, la pittura e naturalmente le pratiche performative. Potrei strologare su questioni d’ordine sociologico e ipotizzare la massimizzazione dell’esperienza artistica della corporeità come il contraltare del contesto “epocale” in cui la comunicazione avviene soprattutto attraverso il medium etereo dei social networks, ma al fondo la verità è sempre una: l’artista, da quando è nato, cioè dai tempi delle grotte di Lascaux, lavora con il corpo.
Nella produzione artistica di Alice Zanin la corporeità – visibile, palpabile, massiva – si accompagna sempre al riconoscimento di una componente…volatile: la parola. E di rimarchevole v’è qui il fatto che proprio la parola è la conditio sine qua non della corporeità: non il corpo in sé, ma il-corpo-sotto-la-parola a rappresentare il senso metateorico di un lavoro che dal corpo parte e al corpo torna, attraverso la mediazione di un flatus vocis.
Il corpo di Alice Zanin è un corpo ricoperto di parola. Sempre, sia nel caso degli animali umani che nel caso degli animali non umani, perché – e ciò è filosoficamente molto rilevante – nella sua visione del mondo l’incontro con l’altro-da-sé viene ad essere l’incontro con un corpo ricoperto di parola. Questo è molto interessante, perché di solito la determinazione di quell’ente naturale che è la persona umana ne prende in considerazione le passioni, i sentimenti e i pensieri (oltre naturalmente alla fisicità con cui, muovendosi, contorna di volta in volta i luoghi nello spazio), mentre di solito la phonè viene lasciata ai linguisti. Ma vi è che la parola è l’ossatura, lo scheletro, l’intima essenza o l’anima della persona umana, precedente soggetto privilegiato dell’opera di Alice Zanin e ora trasposto sull’animale. Noi necessitiamo dello scheletro come della parola (l’uomo è animale sociale, diceva Aristotele), coprendoci tuttavia di una forma fallace, mutevole, che non sempre assolve a una funzione semanticamente efficace, potenziale causa di fraintendimenti, incomprensioni e altri gap gnoseologici, a volte drammatici, altre ridicoli, altre ancora profondi (si pensi al motto di spirito secondo Freud).
L’attenzione orientata al corpo, in Alice Zanin, si traduce quindi nell’andare a fondo dell’ossatura, dello scheletro sotto la pelle, rappresentati rispettivamente in questa serie di sculture in cartapesta dal ferro e dalla carta di giornale: l’anima (in ferro), ricoperta con le volumetrie epidermiche della carta, è l’emerso inoccultabile, perché con la sola carta la scultura sarebbe vuota nello stesso senso in cui vuoti noi saremmo senza il nostro scheletro.
Carta piena di parole, le parole e le frasi stampate su fogli di giornale sovente pittati dall’artista allo scopo di enfatizzare la pittoricità delle escrescenze stesse di questi corpi: la loro anima impossibile da nascondere.
Corpo e parola, dunque, sono i termini che contraddistinguono le sculture in ferro e cartapesta di Alice Zanin. Cui va aggiunto un terzo termine: il “ridicolo”. E qui sta il senso dell’utilizzo di forme animali anziché umane. La parola, strumento fallace e necessario dell’umano, si traspone sull’animale, ente naturale che ne è privo e quindi anche costitutivamente impossibilitato a farne un utilizzo fallace. Questo il senso tragicomico della rivisitazione della locuzione latina Verba volant, scripta manent: mettere parole in bocca a un animale è ragione spesso di ilarità, ma in questo caso la trasposizione uomo-animale rappresenta la scissione drammatica fra parte corporea e parte mentale (noi non siamo solo alate teste d’angelo, diceva Schopenhauer….): la parola, “[…] i pensieri – tanto mutevoli e tormentati anche quando contengono un po’ di felicità“[…], afferma Alice Zanin, di questi animali dalle forme elegantissime e limpide, quasi diafani, caratterizzati da un’aberrazione dello smagrimento tale da porne in luce le volumetrie e le escrescenze osseo-strutturali. Perché, per rubarle ancora le…parole, “[…]la parola è estrema grazia ma anche dannazione, che vive, proferita o accolta, senza possedere il dono dell’esattezza […]”.
Estrema grazia che sopravviene sulle forme stesse di queste sculture in cartapesta e ferro: sinuose, armoniose, avvolgenti, ma anche severe, incisive e repentine, al punto che saremmo tentati dal proiettarle in una temperie rivisitata dell’Art Nouveau e dello Jugendstil. Perché (anche) questo è l’arte contemporanea: fedeltà al presente (perché l’arte è sempre contemporanea, disse il noto critico sanguigno….), ma con riguardo al passato (perché l’arte la si studia e la s’impara dai Maestri) e gli occhi ficcati un passo al di là dell’hinc et nunc (perché altrimenti l’arte sarebbe solo un precario e autoreferenziale ripiegamento interiore). E l’impressione è proprio che Alice Zanin si stia applicando con profitto.
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