55. BIENNALE DI VENEZIA. IL PALAZZO ENCICLOPEDICO

3 Posted by - June 5, 2013 - Recensioni

Massimiliano Gioni ha superato l’esame: questa 55° Biennale di Venezia dal titolo ambizioso, Il Palazzo Enciclopedico, di scena nel Padiglione centrale dei Giardini e all’Arsenale, vale un viaggio nella città “liquida”.  Piace ai critici e al pubblico, salvo perplessità di alcuni addetti ai lavori non soddisfatti di un’esposizione che non ha la pretesa di rappresentare il mondo, ma di suggerire mappe labirintiche del presente, complesso e frammentato. Gioni è promosso a pieni voti da Achille Bonito Oliva, per Francesco Bonami questa Biennale è perfetta,  più vitale all’Arsenale dove gli artisti sono più liberi, mentre è consapevolmente scolastica l’esposizione ai Giardini. Germano Celant ne ha parlato positivamente, pur facendo alcune premesse sulle differenze generazionali, mentre per Vittorio Sgarbi è ben fatta, incriticabile, didascalica, sembra di “andare in un salotto con persone per bene”, “è noiosa”. Piace a Maurizio Cattelan, Hans-Ulrich Obrist, Bice Curiger, curatrice della  54° Biennale (2011) e a molti altri artisti/vip e outsider anonimi. Come sempre accade, l’importante è che si continui a parlare d’arte, attraverso mostre che agiscono quando suscitano polemiche, riflessioni e confronti tra opinioni discordi. Questo, non dimentichiamolo, è un segno di libertà e di democrazia, che speriamo duri il più a lungo possibile.

Il protagonista assoluto in questa Biennale è l’inconscio, ispirato al Libro Rosso di Carl Gustav Jung (1875-1961), così chiamato per il colore della copertina di pelle, presentato ai Giardini, manoscritto illustrato che raccoglie le visioni del più autorevole psicoterapeuta del Novecento, esposto per la prima volta in Italia accanto ad altre opere di artisti  professionisti e autodidatti, personaggi eccentrici fuori dal sistema che introduce una riflessione sullo spazio del sogno e dell’immaginario alla base della nostra cultura visiva. Arte come rivelazione, da Jung a oggi : la Biennale è un viaggio iniziatico di conoscenza nella profondità dell’universo, inconoscibile e immaginifico.

Massimiliano Gioni  mette in mostra  un caos ordinato, il pensiero postmoderno all’insegna di saperi separati e frammentati e la coesistenza delle differenze di tecniche linguaggi anche opposti.

Questa  Biennale non è la solita sfilata di personaggi noti, ma si snoda su un  pensiero critico portante: era dal 1993 (diretta da Achille Bonito Oliva) e dal 1995 (diretta da Jean Clair) che non succedeva. Il Palazzo Enciclopedico rispecchia la disintegrazione dei saperi e dei linguaggi attuali con cartografie immaginarie, seppure in chiave volutamente didattica, scolastica, senza scadere nel nozionismo sterile. Indubbiamente questo “museo temporaneo“ di Gioni  sarebbe piaciuto a Borges, Italo Calvino, Andrè Breton e a Jean Baptiste le Rond d’Alembert  e Denis  Diderot autori dell’Encyclopédie (1751).

E’ una Biennale da non perdere, anche se non brilla per azzardi sperimentali e non provoca scossoni elettrizzanti, ma punta sul simbolo, sull’immaginario, cosmogonie apocalittiche e antroposofie sciamaniche liberatorie ispirate a Rudolf Steiner (1861-1925), eclettico personaggio che tentò di dare un fondamento scientifico all’esperienza spirituale, intriso di esoterismo e misticismo orientale. E’ più riuscita l’esposizione all’Arsenale, dove si vede un’arte ai limiti della follia senza scadere nel misticismo, il tutto in bilico tra scienza e magia, razionalismo e fantasia, con opere-reperti del contemporaneo musealizzati dall’architetto Annabelle Selldorf, che ha  modificato completamente le ex Corderie, spazio dall’identità industriale trasformato per l’occasione in showroom algido e asettico. E’ una mostra di taglio antropologico, un inno alla memoria e smaschera il  “pensiero debole” del nostro tempo a caccia di valori, estetiche, prospettive e identità. E non potrebbe essere diversamente, dato che il curatore non ha neppure quarant’anni e qui ha tentato di configurare un caleidoscopico sapere globale del presente, inafferrabile quanto l’arte.

Massimiliano Gioni, nato a  Busto Arsizio nel 1973, emigrato a New York, è tra i pochi italiani noti nel mondo dell’arte contemporanea che vanta un curriculum irritante anche per chi scrive, ha dimostrato maturità e rigore per aver allargato il raggio di ricerca dai primi del Novecento a oggi,  puntando non sull’impatto shock, bensì sul taglio storico, sulla ricerca scientifica, sul recupero di artisti per lo più scomparsi, dimenticati o ancora sconosciuti, ponendo fine al giovanilismo efferato di moda negli ultimi anni. Del resto chi parlerebbe  male degli artisti  scomparsi ? L’ossessione del nostro tempo è di catalogare, classificare, inventariare materiali, oggetti e immagini del presente, utopia enciclopedica di matrice illuminista già profetizzata da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane. Passeggerete tra visioni e interpretazioni simboliche dell’universo, tra oggetti, installazioni ambientali, sculture, dipinti, video e moltissime fotografie, per lo più opere d’impronta esoterico-surrealista, e avrete l’impressione di trovarvi in un museo antropologico contemporaneo carico di simboli, dove ogni segno racconta  la storia del Tempo.  Anche il logo del manifesto è aderente al concept: una testa di profilo dalla quale s’irradiano cerchi rossi e bianchi, fecce gialle e blu su fondo nero, come a dire ogni testa un mondo, un pensiero e un’idea.

Senza visione non c’è progetto. Il curatore ha recuperato un megalomane progetto visionario di Marino Auriti (1891-1980 ), ex costruttore di carrozze emigrato negli Stati Uniti durante il fascismo, che solo dopo il pensionamento, nel 1955,  ideò e brevettò il Palazzo Enciclopedico: un museo immaginario che avrebbe dovuto contenere il sapere dell’umanità, centotrentasette piani lungo sedici isolati di Washington. L’impresa non fu realizzata e per la prima volta in Italia vedrete un maestoso plastico dell’edificio collocato all’inizio del percorso all’Arsenale: una struttura piramidale, issata come una testimonianza dell’impulso enciclopedico che caratterizza l’umanità permeata dalla cultura illuminista.

Questa Biennale è pensata come una mostra nella mostra, fatta di stanze che contengono 4.500 opere di 158 artisti, 29 padiglioni ai Giardini, 38 nazioni partecipanti di cui 10 “new entries”:  Santa Sede, Isole Tuvalu, Angola,  Bahamas, Regno del Bahrain, Repubblica della Costa d’Avorio, Kosovo, Repubblica del  Kuwait, Maldive e Paraguay. Senza considerare i 47 eventi distribuiti da nord a sud della città lagunare, che durante i tre giorni della vernice e in occasione dell’apertura, avvenuta in pompa magna il primo giugno, ha seriamente rischiato di sprofondare nell’acqua putrida che emana fetori di decadenza.

Il risultato di questa enciclopedica wunderkammer è positivo, l’esposizione è ordinata, aderente al progetto teorico e le opere sono esposte sotto eleganti bacheche come in un museo di archeologia del presente. Dall’Arsenale al Padiglione centrale dei Giardini il filo rosso è un pensiero critico lucido e analitico. La domanda è: qual è il ruolo dell’arte e del critico? E ancora: quali ermeneutiche sono possibili nell’epoca della globalizzazione?  Apprezzabili anche gli apparati didascalici, da leggere con calma: una miniera di informazioni preziose anche per gli addetti ai lavori. Il rispetto per il  pubblico che chiede di essere informato non è secondario, perché conoscere il pensiero dell’artista e il contesto culturale nel quale elabora l’opera avvicina i profani di tutte le età. La mostra è accessibile a un pubblico eterogeneo, chiunque leggendo le didascalie può capire il pensiero e lo sguardo sul mondo dell’artista e il suo modo di rappresentarlo. Sono di scena artisti diversi per età, provenienza, formazione, cultura ed esperienze vissute. Ognuno di loro racconta una storia di vita, porta se stesso, il proprio immaginario, alienazioni, ossessioni, conflitti religiosi, molti rivelano disagi ai confini con la follia.

Questa  Biennale sarebbe piaciuta a Jean Dubuffet e Antonin Artaud, poiché si propone l’arte come terapia salvifica e libera  espressione di tensioni spirituali verso assoluti altrimenti inesprimibili. L’arte come forma di  evasione dal reale, fatta anche da autodidatti non consacrati dal mercato.  Ricordiamoci che le visioni, le evasioni dalla realtà fanno un gran bene a tutti noi malati di razionalismo efficientista. A questa  Biennale  “plurima” non andateci con la pretesa di  esaurire la conoscenza del mondo, sappiate che riserva delle  sorprese, è da  vivere e non da raccontare. L’Arsenale è più vitale, con lavori eccentrici che mirano  all’onirico, in cui  molti artisti replicano ossessivamente lo stesso segno, un oggetto, un’immagine più volte, seppure con lievi modifiche formali.

Il Palazzo Enciclopedico di Gioni rispecchia le urgenze del nostro tempo, fare il punto sulla situazione, capire quale artista durerà nel tempo, chi e se potrà rappresentare la cultura post digitale.

Qui  tutti ci poniamo il  problema della memoria e della durata, a rischio di polverizzazione in seguito alla rivoluzione digitale. Cosa  c’è di nuovo  quest’anno alla Biennale di Venezia ? La sentenza spetta al pubblico.

Andateci e vedrete che ognuno troverà una risposta diversa, tanto sappiamo che l’arte esisterà fino a quando continuerà a  contemplarla e a considerarla tale.
 
Vedi anche il reportage fotografico di Giacomo Vanetti
 

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