La Biennale di Venezia quest’anno conta ottantotto padiglioni, di cui dieci new entries: tra questi il padiglione dell’Angola, ospitato a Palazzo Cini, ha vinto a sorpresa il premio Leone D’oro con Luanda, Encyclopedic City di Edson Chagas, lavoro focalizzato sull’idea di una cartografia urbana dell’Angola, complessa e imprevedibile, caratterizzato da poster fotografici della capitale e dalla sistematica catalogazione di oggetti abbandonati successivamente ri-collocati nel contesto urbano, con l’obiettivo di creare nuove relazioni fra gli oggetti e lo spazio, fra la forma e il loro significato, confronti all’insegna dell’ambiguità della visione in cui la precisione documentaristica e insieme poetica inscena un nuovo modo di vedere gli spazi della città e il modo di abitarli. Conferma il taglio transnazionale della 55°edizione della Biennale, concepita all’insegna della globalità, anche lo scambio tra il padiglione della Francia con la Germania, che in questa occasione hanno rinunciato alle rispettive posizioni nazionali in corrispondenza con il cinquantenario del Trattato di Cooperazione franco-tedesca. Il padiglione francese ha concepito per gli spazi di quello tedesco il progetto Ravel Ravel Unravel di Anri Sala, che ha catalizzato l’attenzione di visitatoti disposti a ore di coda per poterlo vedere. Il titolo è un gioco di parole basato sull’omofonia tra il verbo inglese “to ravel” e il cognome del compositore francese, Maurice Ravel, che nel 1930 compose il Concerto per la mano sinistra in re maggiore. Il padiglione tedesco per il padiglione francese ha invitato quattro artisti da diversi paesi: Ai Weiwei dalla Cina, Romuald Karmakar dalla Germania, Santu Mofokeng dal Sud Africa e Dayanita Singh dall’India: rappresenta l’attuale generazione e cultura internazionale della Germina riunificata post ’89, in seguito all’abbattimento del muro da parte del popolo tedesco.
Il Giappone, rappresentato da Koki Tanaka, ha presentato un’istallazione multimediale in bilico tra catastrofe e ricostruzione, dedicato al tragico terremoto del Tohoku dell’11 marzo 2011.
Tra cumoli di cartoni e altri detriti c’è un video con cinque compositori al lavoro sullo stesso pianoforte, discettando sul proprio nome, alle prese con foto, mentre compiono gesti come consumare pasti d’emergenza tagliarsi i capelli: processi collaborativi e di solidarietà di una nuova generazione post sismica, suggerendo un vivere umano più sostenibile, nell’atto della condivisione di attività individuali. Questo padiglione ha ottenuto una menzione speciale perché ha riutilizzato la struttura allestitiva della passata Biennale di Architettura: un efficace esempio di ottimizzazione di risorse che andrebbe seguito. Hanno meritato un’altra menzione speciale i padiglioni congiunti di Lituania e Cipro per l’originalità del formato curatoriale che ha unito due paesi in una singola esperienza. Il Padiglione della Gran Bretagna è rappresentato da Jeremy Deller con humor anarchico, che tra azioni, dipinti, installazioni, video e altre situazioni, ironizza sulle complesse trasformazioni del liberalismo non sempre etico. Vedrete immagini che invitano a riflettere sullo strapotere delle classi dominanti, creando un caleidoscopico e surreale quadro d’insieme (e qui non poteva mancare un‘area di sosta dove meditare sul tutto, sorseggiando una tradizionale tazza di te offerta ai visitatori). Il padiglione russo rivisita il tema mitologico di Danae, che simboleggia la lussuria e l’avidità, qui reinterpretato da Vadim Zakharova. Questa installazione mette il dito nella piaga dell’arte contemporanea, ossessionata com’è dalle oscillazioni di mercato e dal valore economico delle opere, piuttosto che del contenuto, poiché il denaro è diventato il fine ultimo di un‘arte pensata per produrre denaro. Quando varcherete la porta d’ingresso, sarete muniti di un ombrello di plastica trasparente e sarete “bagnati ” da una pioggia di monete color oro. Al piano di sopra vi potrete invece prostrare su un inginocchiatoio e osservare i fortunati visitatori accolti da cascate di monetine dorate.
Merita attenzione il padiglione spagnolo, dove Laura Almarcegui ha riempito lo spazio di cumuli di macerie, con un lavoro al confine tra rigenerazione e decadimento, che rimanda a processi di industrializzazione e alle rapide trasformazioni di aree abbandonate nelle periferie della città, all’insegna di speculazioni edilizie e di cambiamenti economici e sociali in atto. Tra i migliori, segnaliamo il padiglione americano, invaso da una complessa catena di installazioni Triple Point, ideata da Sarah Sze, che ha modificato la percezione della struttura di Delano & Aldrich risalente al 1930. Passeggerete tra ordinatissimi assemblaggi di cose, reperti del quotidiano, materiali che formano una surreale catena del DNA del presente, dagli ecosistemi fragili, macchine inventariali di ricordi crittografici di grande impatto scenografico e poetico.
All’Arsenale primeggia il padiglione cileno, rappresentato da Alfredo Jarr, con l’installazione Venezia-Venezia, un monumentale plastico dei Giardini che emerge e scompare dall’acqua putrida verdastra, che suggerisce ripensamenti sul ruolo dei padiglioni nazionali della cultura e della Biennale. Ha superato l’esame l’atteso padiglione Italia, dopo quello criticatissimo diretto della Biennale del 2011 diretto da Vittorio Sgarbi. E’ piaciuta la mostra Vice versa, a cura di Bartolemo Petromarchi, direttore del MACRO, concepita come un confronto dialettico tra sette coppie di artisti, in dialogo incrociato con l’eredità storica e l’attualità. A Luigi Ghirri, presente con la raccolta di fotografia di Viaggio in Italia (1984) e visto di recente alla Triennale a di Milano, si accompagna Luca Vitone con l’installazione olfattiva Per l’eternità, ispirata dall’Eternit e che consiste nell’aver ricreato l’odore acre di questa sostanza tossica, ma qualcuno ha commentato che non emana nessun odore. Francesco Arena ha calcolato otto tonnellate di terra rimossa dal suolo per seppellire le vittime di guerra in Europa tra il 1935 e il 1995 , riposta in quattro possenti torri (della vergogna?) a futura memoria, come efficace monito contro le atrocità della storia prodotte dall’uomo. A queste si affianca la nota performance di Fabio Mauri, Ideologia e Natura del 1973, in cui una conturbante fanciulla compare mentre si spoglia e riveste in modo disordinato una divisa fascista, svelando l’ambiguità dei regimi dittatoriali. Francesca Grilli ha combinato la potenza della voce con l’acqua che cola su una lastra di ferro, che si trasforma in ruggine. L’artista è in coppia con Massimo Bartolini, che ha rievocato la potenza della musica di Giuseppe Chiari con frasi scritte sui muri e ha costruito una rampa, dal percorso irto e difficoltoso, di macerie di bronzo, che conduce a un muro bianco, sordo, invalicabile. Una visita a questo Padiglione vale anche solo per l’accoppiamento tra l’enigmatico e raffinato Giulio Paolini e Marco Tirelli, entrambi affascinati da figurazioni classiche, citazioni degli strumenti del fare arte incentrati sull’analisi della prospettiva e della superficie. Paolini lo si riconosce per una quinta scenografica fatta di linee ortogonali che rimandano a una quadreria settecentesca, mentre Tirelli raccoglie in una sala disegni e piccole sculture. Elisabetta Benassi è stata la migliore, con l’installazione site specific di quasi diecimila mattoni di argilla del Polesine, teatro della disastrosa alluvione del 1951, marchiati sulla superficie con nomi e i codici di catalogazione dei detriti spaziali che orbitano intorno alla terra: rispetto alle altre si integra perfettamente con lo spazio. L’artista è affiancata da Gianfranco Baruchello, con l’opera Piccolo sistema, uno spazio scientifico e laboratoriale: un assemblaggio di materiali diversi che rimandano alla natura e all’ecosostenibilità (ma l’artista dà il meglio di sé al Padiglione centrale dei Giardini). La coppia più debole, che non tiene la tensione delle altre, è quella di Flavio Favelli, che ha ricostruito una cupola d’ispirazione borrominiana con tanto di lanterna che emana una luce diafana, e Marcello Maloberti, presente con un monolite di marmo sul quale quattro uomini muovono su e giù teli di mare color argento. Nel giardino delle Vergini Piero Golia espone un cubo di cemento contenente sabbia dorata, asportabile dal visitatore. Mentre Sisley Xhafa, abbarbicato su un enorme albero, ha assunto il ruolo di barbiere durante i tre giorni di vernice stampa, una trovata non troppo efficace che dovrebbe, secondo l’artista, suggerire la domanda sul ruolo della Biennale, dove il visitatore potrebbe cambiare opinione. Ma lasciamo al pubblico l’ardua sentenza, tanto ognuno avrà i suoi padiglioni preferiti, l’importante è andare a scovarli. Il più votato, all’Arsenale, è stato il padiglione della Santa Sede, con una mostra incentrata sul non facile tema della Genesi che contiene il mistero delle origini, le creazioni dei regni, l’ingresso del male nella storia, la speranza, dopo la distruzione: immaginata da monsignor Gianfranco Ravasi e curata da Antonio Paolucci in collaborazione con Micol Forti e Pasquale Icabone, la mostra si apre con una trilogia di Tano Festa, ispirata ai dipinti di Michelagelo nella cappella Sistina a Roma. Studio Azzurro ha interpretato il tema della creazione con un’istallazione interattiva che coinvolge lo spettatore: troverete quattro lastre e altrettanti video che descrivono il regno animale, naturale, umano e le relazioni che queste creano tra loro. La rappresentazione delle origini si attiva toccando le lastre. E’ poetico vedere sordi esprimersi con il linguaggio dei segni che tracciano ghirigori blu, come tracce dell’infinito e di mondi soggettivi invisibili. Gli altri artisti sono Joseph Koudelka, che ha affrontato il tema della Decostruzione con una un reportage di fotografie sul tema, e Lawrence Caroll, con un’istallazione che attiva relazioni tra oggetti e il tempo, storia e memoria.
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