55. BIENNALE DI VENEZIA: GRAND TOUR FRA I PADIGLIONI NAZIONALI

1 Posted by - June 10, 2013 - Recensioni

La Biennale di Venezia quest’anno conta ottantotto padiglioni, di cui dieci new entries: tra questi il padiglione dell’Angola, ospitato a Palazzo Cini, ha vinto a sorpresa il premio Leone D’oro con Luanda, Encyclopedic City di Edson Chagas, lavoro focalizzato sull’idea di una cartografia urbana dell’Angola, complessa e imprevedibile, caratterizzato da poster fotografici della capitale e dalla sistematica catalogazione di oggetti abbandonati successivamente ri-collocati nel contesto urbano, con l’obiettivo di creare nuove relazioni fra gli oggetti e lo spazio, fra la forma e il loro significato, confronti all’insegna dell’ambiguità della visione in cui la precisione documentaristica e insieme poetica inscena un nuovo modo di vedere gli spazi della città e il modo di abitarli. Conferma il taglio transnazionale della  55°edizione  della  Biennale, concepita all’insegna della globalità, anche lo scambio tra il padiglione della Francia con la Germania, che in questa occasione hanno rinunciato alle rispettive posizioni nazionali in corrispondenza con il cinquantenario del Trattato di  Cooperazione franco-tedesca. Il padiglione  francese ha  concepito per gli spazi di quello tedesco il progetto  Ravel Ravel Unravel di Anri Sala, che ha catalizzato l’attenzione di visitatoti disposti a  ore di coda per poterlo vedere. Il titolo è un gioco di parole basato sull’omofonia tra il verbo inglese “to ravel” e il cognome del compositore francese, Maurice Ravel, che nel 1930 compose il Concerto per la mano sinistra in re maggiore. Il padiglione tedesco per il padiglione francese ha invitato quattro artisti da diversi paesi: Ai Weiwei dalla  Cina, Romuald Karmakar dalla Germania, Santu Mofokeng dal Sud Africa e Dayanita Singh dall’India: rappresenta l’attuale generazione e cultura internazionale  della Germina riunificata post ’89, in seguito all’abbattimento del muro da parte del popolo tedesco.

Il Giappone, rappresentato da Koki Tanaka, ha presentato un’istallazione multimediale in bilico tra catastrofe e ricostruzione, dedicato al tragico terremoto del Tohoku dell’11 marzo 2011.

Tra cumoli di cartoni e altri detriti c’è un video con cinque compositori al lavoro sullo stesso  pianoforte, discettando sul proprio nome, alle prese con foto, mentre compiono gesti come  consumare pasti d’emergenza tagliarsi i capelli: processi collaborativi e di solidarietà  di una  nuova  generazione post sismica, suggerendo un vivere umano più sostenibile, nell’atto della condivisione di  attività individuali. Questo padiglione ha ottenuto una  menzione speciale perché  ha riutilizzato la struttura allestitiva della passata Biennale di Architettura: un efficace esempio di ottimizzazione di risorse che andrebbe seguito. Hanno meritato un’altra menzione speciale i padiglioni congiunti di Lituania e Cipro per l’originalità del formato curatoriale che ha unito due paesi in una singola esperienza. Il Padiglione della Gran Bretagna è rappresentato da Jeremy Deller con humor anarchico, che tra azioni, dipinti, installazioni, video e altre situazioni, ironizza sulle complesse trasformazioni del liberalismo non  sempre etico. Vedrete immagini che invitano a riflettere sullo strapotere delle classi dominanti, creando un caleidoscopico e surreale quadro d’insieme (e qui non poteva  mancare un‘area di sosta  dove  meditare sul tutto, sorseggiando una tradizionale tazza  di te offerta ai visitatori). Il padiglione russo rivisita il tema  mitologico di Danae, che simboleggia la  lussuria e l’avidità, qui reinterpretato da Vadim Zakharova. Questa installazione  mette il dito nella  piaga  dell’arte contemporanea, ossessionata com’è dalle oscillazioni di mercato  e dal  valore economico delle opere, piuttosto che del contenuto, poiché il denaro è diventato il fine ultimo di un‘arte pensata per produrre denaro. Quando varcherete la  porta  d’ingresso, sarete  muniti di un  ombrello di plastica trasparente e sarete “bagnati ” da una  pioggia di monete color oro. Al piano di sopra  vi potrete invece prostrare  su un inginocchiatoio e osservare  i fortunati visitatori accolti da cascate di monetine dorate.

Merita attenzione il padiglione spagnolo, dove Laura Almarcegui ha riempito lo spazio di cumuli di macerie, con  un lavoro al confine tra rigenerazione e  decadimento, che  rimanda a processi di industrializzazione e alle rapide trasformazioni di aree abbandonate nelle periferie della città, all’insegna di speculazioni edilizie e di cambiamenti economici e sociali in atto. Tra i migliori, segnaliamo il padiglione americano, invaso da  una complessa catena di installazioni Triple Point, ideata da Sarah Sze, che  ha modificato la percezione della  struttura di Delano & Aldrich  risalente al 1930. Passeggerete tra ordinatissimi assemblaggi di cose, reperti del quotidiano, materiali che  formano una surreale catena del DNA del presente, dagli ecosistemi fragili, macchine inventariali di ricordi crittografici di grande impatto scenografico e poetico.

All’Arsenale primeggia il padiglione cileno, rappresentato da Alfredo Jarr, con l’installazione Venezia-Venezia, un monumentale plastico dei Giardini che emerge e scompare dall’acqua putrida  verdastra, che suggerisce ripensamenti sul ruolo dei padiglioni nazionali della cultura e della Biennale. Ha superato l’esame l’atteso padiglione Italia, dopo  quello criticatissimo diretto della Biennale del 2011 diretto da  Vittorio Sgarbi. E’ piaciuta la mostra  Vice versa, a cura di Bartolemo Petromarchi, direttore del MACRO, concepita  come un confronto dialettico tra sette coppie di artisti, in dialogo incrociato con l’eredità storica e l’attualità. A Luigi Ghirri, presente con la raccolta di fotografia di Viaggio in Italia (1984) e visto di recente alla  Triennale a di Milano, si accompagna Luca Vitone con l’installazione olfattiva Per l’eternità, ispirata dall’Eternit e che consiste nell’aver ricreato l’odore acre di questa sostanza tossica, ma qualcuno ha commentato che non emana nessun odore. Francesco Arena ha calcolato otto tonnellate di terra rimossa dal suolo per seppellire  le vittime di guerra in Europa tra il 1935 e il 1995 , riposta in quattro possenti torri (della vergogna?) a futura  memoria, come efficace  monito contro le atrocità della storia prodotte dall’uomo. A queste si affianca la nota performance di Fabio Mauri, Ideologia e Natura del 1973, in cui  una conturbante fanciulla compare mentre si spoglia e riveste in modo disordinato una divisa fascista, svelando l’ambiguità dei regimi dittatoriali. Francesca Grilli ha combinato la potenza della  voce con l’acqua che cola su una lastra di ferro, che si trasforma in ruggine. L’artista è in coppia con  Massimo Bartolini, che ha rievocato la potenza  della  musica di Giuseppe  Chiari con frasi  scritte sui muri e ha costruito una rampa, dal percorso irto e difficoltoso, di macerie di bronzo, che  conduce a un muro bianco, sordo, invalicabile. Una visita a questo Padiglione vale anche solo per l’accoppiamento tra l’enigmatico e raffinato Giulio Paolini e Marco Tirelli, entrambi affascinati da  figurazioni classiche, citazioni degli strumenti del fare arte incentrati sull’analisi della prospettiva e della superficie. Paolini lo si riconosce per una quinta scenografica fatta di linee ortogonali che rimandano a  una quadreria settecentesca, mentre Tirelli raccoglie in una sala disegni e piccole sculture. Elisabetta Benassi è stata la migliore, con l’installazione site specific  di quasi diecimila mattoni di argilla del Polesine, teatro della disastrosa alluvione del 1951, marchiati sulla superficie con nomi e i codici  di catalogazione dei detriti spaziali che orbitano intorno alla terra: rispetto alle altre si integra perfettamente con lo spazio. L’artista è affiancata da Gianfranco Baruchello, con l’opera Piccolo sistema, uno spazio scientifico e laboratoriale: un assemblaggio di materiali diversi che rimandano alla natura e all’ecosostenibilità (ma l’artista dà il meglio di sé al Padiglione centrale dei Giardini). La coppia più debole, che non tiene la tensione  delle altre, è quella di Flavio Favelli, che ha ricostruito una cupola d’ispirazione borrominiana con tanto di lanterna che emana una luce diafana, e Marcello Maloberti, presente con un  monolite di marmo sul quale quattro uomini muovono su e giù teli di mare color argento. Nel giardino delle Vergini Piero Golia espone un cubo di cemento contenente sabbia dorata, asportabile dal visitatore. Mentre Sisley Xhafa, abbarbicato su un enorme albero, ha assunto il ruolo di barbiere durante i tre giorni di vernice stampa, una trovata non troppo efficace che dovrebbe, secondo l’artista, suggerire la domanda sul ruolo della Biennale, dove il visitatore potrebbe cambiare opinione. Ma lasciamo al  pubblico l’ardua sentenza, tanto ognuno avrà i suoi padiglioni preferiti, l’importante è andare a scovarli. Il più votato, all’Arsenale, è stato il padiglione della Santa  Sede, con una  mostra incentrata sul non facile tema della Genesi che contiene il mistero delle origini, le creazioni dei regni, l’ingresso del male nella storia, la speranza, dopo la distruzione: immaginata da monsignor Gianfranco Ravasi e curata da Antonio  Paolucci in collaborazione con Micol Forti e Pasquale Icabone, la mostra si apre con una trilogia di Tano Festa, ispirata ai dipinti di Michelagelo nella cappella Sistina a Roma. Studio Azzurro ha interpretato il tema della creazione  con un’istallazione interattiva che coinvolge lo spettatore: troverete quattro lastre e altrettanti video che descrivono il regno animale, naturale, umano e le relazioni che queste creano tra loro. La rappresentazione delle origini si attiva toccando le lastre. E’ poetico vedere  sordi esprimersi con il linguaggio dei segni che tracciano ghirigori blu,  come tracce dell’infinito e di mondi soggettivi invisibili. Gli altri artisti sono Joseph Koudelka, che ha affrontato il tema della Decostruzione con una un reportage di fotografie sul tema, e Lawrence Caroll, con un’istallazione che attiva relazioni tra oggetti e il tempo, storia  e  memoria.

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